Le elezioni del 25 settembre: tutto cambia affinché nulla cambi
La rottura dell’ordine capitalistico mondiale, inaugurata dalla guerra in Ucraina, ha accelerato il processo di crisi dei regimi borghesi europei. Alla crisi economica strutturale di lungo corso si sono aggiunti, negli ultimi tre anni, gli effetti devastanti della crisi pandemica, che ha prodotto nel 2020 il crollo del Pil delle principali economie mondiali e, in ultimo, la crisi energetica con la conseguente spirale inflazionistica determinata dall’impennata dei prezzi del gas, occasionata dalla risposta di Mosca alle sanzioni economiche imposte dall’Ue alla Russia, ma frutto in gran misura delle speculazioni sui mercati che quotano le materie prime (il Ttf di Amsterdam). In tutti gli Stati europei, questo inasprimento della crisi ha accresciuto a dismisura le frizioni all’interno della borghesia, determinando una profonda instabilità dei governi di tutti i principali paesi, imperialisti e non. Dopo lo scossone alle elezioni legislative francesi in giugno, in cui il partito di Marine Le Pen è balzato dai precedenti 8 seggi agli attuali 89, è stata poi la volta dell’Inghilterra, dove si è assistito alla rovinosa caduta di Boris Johnson. In Repubblica Ceca, come in molti altri Stati europei, manifestazioni di massa si sono susseguite nelle ultime settimane in risposta agli aumenti dei prezzi dell’energia. Persino in Italia, dove a sostenere il governo vi era una coalizione rappresentativa di tutti i settori della borghesia, e per giunta guidata da un leader, Mario Draghi, che costituisce uno dei più autorevoli pilastri del capitale finanziario europeo, le frizioni inter-borghesi hanno prevalso e condotto alle elezioni di settembre. La vittoria di Giorgia Meloni e della coalizione di centro-destra era stata largamente anticipata dai sondaggi, che avevano evidenziato la profonda e, per certi versi, inestricabile, crisi del Pd.
Astensionismo record
Un primo dato che emerge in modo inequivocabile dall’analisi dei dati elettorali, conseguenza della su citata crisi e debolezza dei regimi borghesi, è l’elevata percentuale di astensionismo, la più alta nella storia dell’Italia del dopoguerra. Più di 1 elettore su 3 ha evitato di recarsi alle urne, a dimostrazione di quanto sia profondo e radicato il malessere delle classi subalterne non solo nei confronti dei partiti borghesi ma anche di quelli che si autodefiniscono di sinistra radicale. Questo dato non stupisce affatto: è l’inevitabile conseguenza del drammatico peggioramento delle condizioni di vita degli strati proletari e della piccola borghesia, che non è un fenomeno congiunturale ma un elemento strutturale di lunga data. È difatti da almeno una ventina di anni che tutti i governi che si alternano alla guida del paese sono costretti ad aggredire salari e diritti delle classi subalterne per garantire la tenuta dei profitti del grande capitale e provare ad onorare il pagamento degli interessi sull’enorme debito pubblico accumulato nei confronti dei centri della finanza mondiale (oltre il 150% del Pil). Se alle elezioni del 2018 un importante settore di piccola borghesia e di proletariato si era illuso che il M5s potesse porre un argine alle politiche imposte da Bruxelles, la fine di quelle illusioni ha aumentato il disincanto di importanti settori di massa verso una soluzione parlamentare dei suoi problemi. Questo disincanto, che ad oggi non trova ancora una sua rappresentazione al di fuori dell’arco parlamentare, è inevitabilmente destinato ad approfondirsi e a tramutarsi in lotta delle classi sociali subalterne, proprio per il carattere strutturale della crisi economica, bellica ed energetica.
Le convulsioni della piccola borghesia impoverita
Oggi, in tutta Europa, e in Italia in particolare, la classe sociale che è in maggior fibrillazione è di certo la piccola borghesia impoverita. I rincari delle bollette sono come una spada di Damocle sulla testa di centinaia di migliaia di piccole e medie imprese che rischiano di dover chiudere, o hanno già chiuso, la loro attività. Sono questi settori ad essersi principalmente rivolti alla leader dell’estrema destra, Giorgia Meloni, che con grande scaltrezza, opportunismo e furbizia politica ha saputo conquistare la fiducia di questi strati sociali, sottraendoli persino a forze di destra parimenti reazionarie e populiste, come Italexit di Paragone e la destra sovranista di Rizzo e Ingroia. Se si analizzano i dati elettorali, tuttavia, si vede che, complessivamente, i voti che guadagna Fdi coincidono approssimativamente con quelli che perde la Lega di Salvini. Si è cioè verificato un sostanziale travaso di voti dalla Lega, percepita dalla piccola borghesia come troppo subalterna ai diktat del grande capitale rappresentato da Draghi, verso FDI, che ha beneficiato, nell’immaginario di questi strati sociali, dell’essersi collocata all’opposizione del grande capitale (finta opposizione in realtà, visto che il suo partito ha votato tutti i principali decreti del governo Draghi). Seppur canti vittoria, il grande sconfitto delle elezioni è il M5s che passa dai quasi 11 milioni di voti alla Camera del 2018 ai circa 4,5 milioni di voti attuali. Un dato abbastanza scontato, visto che questa organizzazione, che era stata erroneamente percepita come “antisistema” da milioni di persone, ha mostrato il suo vero volto opportunista, costituendo il nucleo fondante di tutti e 3 i governi che si sono succeduti dal 2018 approfondendo le diseguaglianze sociali. Il Pd, che viene anch’esso considerato il grande sconfitto di queste elezioni, è, più correttamente, un partito sottoposto a un lento ma inesorabile logoramento. Alla Camera, ad esempio, perde circa 800.000 mila voti rispetto alle elezioni del 2018, ma mantiene all’incirca le stesse percentuali delle precedenti elezioni e in una situazione complessiva in cui vi è un calo complessivo di votanti di circa 5 milioni (circa il 10% rispetto alle precedenti elezioni). Il Pd conserva, sostanzialmente, la sua tradizionale base elettorale, rappresentata sia dai ceti medi impiegatizi, storicamente più inerti dal punto di vista della lotta di classe perché maggiormente garantiti nei diritti e nella continuità salariale, sia da quei settori di classe operaia ad oggi controllati ancora dalle grandi burocrazie sindacali confederali. Il lento e progressivo declino del PD deriva dalla corretta percezione, da parte di un progressivamente crescente settore di lavoratori, di quella che è la sua vera natura politica, ossia l’essere il principale riferimento del capitale finanziario europeo e quindi il responsabile principale dell’applicazione in Italia di quelle politiche ultraliberiste che dominano l’intera scena mondiale da circa trent’anni. Prima dell’accelerazione della crisi, prodotta dalla guerra, la spartizione dei fondi del Pnrr, destinati principalmente alla ristrutturazione del sistema di produzione industriale in direzione della green-economy, aveva prodotto un patto di ferro tra governo e Cgil. L’idea di fondo del banchiere Draghi era quella di intervenire sui problemi strutturali della produzione industriale italiana cercando di favorire una ripresa della produttività, vero tallone di Achille del sistema capitalistico italiano [1]. Ma l’impazzimento dei prezzi dell’energia ha fatto saltare l’equilibrio tra i vari settori di borghesia, riportando alla ribalta il malessere di quei settori (di borghesia piccola e media) maggiormente esposti alle oscillazioni dei costi di produzione. Tutta la discussione in campagna elettorale sulla necessità di uno scostamento dalla legge di bilancio e sulle modifiche delle linee di intervento del Pnrr è stata abilmente condotta da Meloni per accreditarsi come referente di questi settori di piccola borghesia in crisi. E le difficoltà per la Meloni e per il governo che si andrà ad instaurare passano principalmente ed esattamente per questo nodo scorsoio che si restringe sempre più attorno al collo dei rappresentanti politici della borghesia. Comunque, da quel che possiamo intuire, dopo aver appreso dei recenti amorevoli cinguettii tra Draghi, Cingolani e Meloni, le illusioni della piccola borghesia impoverita sembrano già segnate ancor prima che la partita abbia inizio. È in effetti assai improbabile che, nel momento probabilmente di maggior crisi dell’Ue dalla sua nascita, i banchieri europei possano scommettere ulteriormente i loro capitali nel tentativo di ridare ossigeno a centinaia di migliaia di imprese che già prima della guerra avevano grosse difficoltà a reggere la competizione sul mercato globale. Le minacce, senza alcun velo o ipocrisia, di Von der Leyen (“Vedremo il risultato delle elezioni in Italia, ma se le cose andranno in una situazione difficile, come nel caso di Polonia e Ungheria, abbiamo gli strumenti“) sono in tal senso abbastanza indicative di quello che è l’indirizzo dell’Ue nei confronti dei problemi dei ceti medi italiani. Gli Stati europei, a cominciare dalla Grecia, conoscono molto bene quelli che sono gli “strumenti” che l’imperialismo europeo utilizza usualmente per sedare le richieste di aiuto degli Stati in crisi. È dunque evidente che nessuna soluzione parlamentare potrà risolvere i problemi economici della piccola borghesia impoverita. Fino a quando si tratterà di accontentare qualche fascistello fanatico attraverso l’introduzione di misure contro gli africani, contro il reddito di cittadinanza o contro gli operai che fanno i picchetti, il nuovo governo proverà a soddisfare queste richieste. Anzi è molto probabile che dal versante dell’aggressione ai diritti e ai salari dei lavoratori il governo Meloni mostrerà tutto il suo piglio autoritario e reazionario. Ma questo non risolverà affatto i problemi economici dei ceti sociali che si sono rivolti a Meloni, la quale sa benissimo che la natura reazionaria della piccola borghesia è solo la sovrastruttura di appetiti materiali difficili da esaudire nel quadro dell’economia capitalistica globale. Ad oggi l’impressione che si ricava è che fosse molto più nazionalista il progetto iniziale del M5S, il quale stravinse le precedenti elezioni del 2018. Ricordiamo infatti che furono proprio le direttive dell’Ue, attraverso il suo esponente locale Mattarella, ad impedire una soluzione di tipo nazionalista, attraverso la rottura con l’UE, alla crisi della piccola borghesia: fu esattamente Mattarella a impedire che al ministero dell’economia del nascente governo venisse posto l’economista Savona, che, nelle parole del presidente italiano, rappresentava “un esponente che … potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro” [2]. Quel che accade oggi in Italia e in Europa è, in definitiva, qualcosa che ricorda molto le pulsioni che attraversarono i ceti medi europei, e che produssero l’ascesa dei movimenti nazionalisti negli anni 30 del secolo scorso. Quelle pulsioni, così come oggi, sebbene a partire da un quadro iniziale storicamente diverso, furono determinate dalla drammatica crisi del 1929, “risolta” poi dal conflitto imperialista attraverso la Seconda guerra mondiale. E quindi torna in tutta la sua attualità l’analisi che di questi movimenti fece Trotsky in quegli anni:
“Poiché la piccola borghesia è incapace di politica indipendente (per questo anche la “dittatura democratica” piccolo borghese è irrealizzabile), non le resta altra scelta che quella tra borghesia e proletariato. Nell’epoca dell’ascesa, della crescita e del fiorire del capitalismo, la piccola borghesia, nonostante acuti scoppi di malcontento, generalmente marciava obbedientemente ai ferri capitalistici. Né avrebbe potuto fare altro. Ma nelle condizioni della disgregazione capitalista e dell’impasse della situazione economica, la piccola borghesia si sforza, cerca, tenta di liberarsi dalle catene dei vecchi padroni e governanti della società.”
Ed è in fondo questa la ragione per la quale l’investitura della Meloni rappresenta solo l’ennesima, inutile convulsione della piccola borghesia in crisi.
L’assenza di un partito operaio
Anche in queste elezioni mancava un partito della classe operaia nato dal seno della stessa classe. Erano invece presenti alcuni residuati del riformismo di sinistra, da Rifondazione Comunista a Potere al popolo, che si sono coalizzati all’interno della lista di Unione Popolare, con esplicito riferimento all’esperienza della sinistra piccolo-borghese di Melenchon, oggi leader di una forza di sinistra populista molto attenta a conciliare le rivendicazioni di classe con gli interessi degli industriali francesi e dei banchieri che guidano l’UE. I risultati elettorali per UP sono stati più di un autentico fallimento, se si pensa che tale lista non è riuscita a raccogliere congrui consensi nemmeno nella roccaforte napoletana del suo leader De Magistris, ex sindaco della città. Per onestà intellettuale bisogna anche dire che l’esperimento di UP è stato penalizzato dalla presenza di una forza, il M5s, che avanzava lo stesso programma elettorale (difesa del reddito di cittadinanza, introduzione di un salario “iper-minimo”), e questo la dice lunga su quanto miserabile fosse il programma di UP, su cui non vale la pena spendere una parola in più di quelle già precedentemente spese [3]. È invece interessante osservare che Conte è riuscito a risalire la china, rispetto ai sondaggi pre-elettorali che davano il M5s in caduta libera, e a guadagnare il consenso di ampi strati di sottoproletariato e anche di proletariato fortemente impoverito. Non è in tal senso un caso che il M5S sia stato il primo partito al Sud e in molte città operaie (ad es. Taranto), dove le diseguaglianze sociali e la miseria estrema raggiungono le punte più elevate. Bisogna anche riconoscere che se il M5s ha perso ma non è crollato è stato soprattutto per le grandi capacità comunicative di Conte, a cui il proletariato, privo di una coscienza di classe, ha perdonato, ad esempio, di essere stato alla testa di un governo che con i decreti sicurezza ha condannato alla morte migliaia di migranti nel Mediterraneo e ridotto, quasi sino ad azzerarlo, il diritto allo sciopero e il dissenso della classe operaia e dei movimenti sociali. Ed è davvero paradossale, per non dire ridicolo, che continuino a richiamarsi al trotskismo e al leninismo (la tattica del “voto critico” viene completamente stravolta ed adattata ad uno scolastico quanto inutile opportunismo di chi non riesce nemmeno per una volta a distaccarsi dalla democrazia liberale e dai suoi rituali) alcune organizzazioni, come Sinistra Anticapitalista e Sinistra Classe Rivoluzione, che hanno dato indicazione di voto per l’autodefinitosi “uomo delle istituzioni” (borghesi) De Magistris, tutto infervorato a difendere la costituzione italiana dagli attacchi dei “fascisti”. Sarebbe interessante chiedere ai compagni di PRC, PaP, SA e SCR se hanno per caso letto l’articolo 42 della Costituzione, che, attraverso la tutela della proprietà privata dei mezzi di produzione, svela la natura borghese dello Stato nato dalla lotta “antifascista”. Né possiamo certo convenire con l’entusiasmo del Pcl, che dalla sua pagina web rivendica come un successo l’avere, notate bene, triplicato i voti della precedente tornata elettorale in Liguria (l’unica regione in cui sono riusciti a raccogliere le firme per candidarsi alle elezioni) ottenendo la stratosferica percentuale dello 0,66%. Ci farebbe piacere capire se la pagina web del Pcl sia per caso, in questi mesi, stata trasformata in un sito di satira politica.
Costruire il partito della classe operaia
La continuità della linea di politica economica del governo Draghi, nella nostra lettura, sarà garantita dal successo di Giorgia Meloni alle elezioni del 2022. Ma ciò avverrà in una fase di crisi profonda dell’economia mondiale, in cui il governo entrante dovrà accrescere l’aggressione ai salari e ai diritti dei lavoratori per tentare di arginare la bassa produttività del sistema di produzione italiano. In una fase, peraltro, in cui l’impennata inflazionistica produrrà l’ingresso nella povertà di fasce sempre più ampie di proletariato e piccola borghesia. Il proletariato manca di un suo partito, in grado di organizzare e coordinare le tante vertenze che nascono inevitabilmente nel paese per effetto della lotta di classe condotta dalla grande borghesia contro il proletariato, e tentare di invertire i rapporti di forza a partire dalla lotta di classe contro il grande capitale, cercando di attrarre a sé gli strati in fase di proletarizzazione di piccola borghesia. Alcuni importanti tentativi di ricostruzione di una organizzazione operaia (dalle lotte e dal lavoro di coordinamento degli operai del Si Cobas sino al tentativo di convergenza e insorgenza degli operai Gkn) costituiscono un percorso obbligato attraverso il quale dovrà necessariamente nascere il partito della classe operaia. Le scorciatoie di piccoli gruppi che impropriamente si definiscono partito, o addirittura proclamano di aver ricostruito l’Internazionale, sono francamente ridicole e farsesche; a maggior ragione quando taluni di questi “partiti”, chiedendo al governo italiano di sostenere con l’invio di armi “l’eroica resistenza ucraina”, diventano gli alfieri di sinistra dell’imperialismo dominante. Come la storia insegna, è solo a partire dalla necessità (dal nostro punto di vista impellente) del coordinamento di militanti rivoluzionari, comitati operai, organizzazioni dei disoccupati, assemblee di lotta (donne, studenti), che pure stanno lentamente nascendo nel nostro paese, che il movimento operaio potrà costruire, se saprà dotarsi di corrette impostazioni teoriche, quello strumento necessario a difendere, attraverso la lotta e non certo le elezioni, le rivendicazioni della classe lavoratrice e a prospettare la necessità di una società liberata dalla borghesia e dai fascisti.
Assalto al Cielo
Il Diario della Talpa
Prospettiva Operaia
Note:
[1] https://thenextrecession.wordpress.com/2022/09/23/italy-lurching-to-the-right/?fbclid=IwAR25w0qPt5yudJQmATad70Rk4SXIkVPPudGhZ1-bYEX_l6j37CXEuC35iK8 [2] https://www.agi.it/politica/discorso_mattarella_governo-3957981/news/2018-05-28/ [3] https://prospettivaoperaia.org/2022/09/23/per-i-lavoratori-e-le-lavoratrici-non-ce-nessuna-fiducia-da-riporre-nello-squallido-teatrino-elettorale-del-25-settembre/Condividi con:
Le elezioni del 25 settembre: tutto cambia affinché nulla cambi
La rottura dell’ordine capitalistico mondiale, inaugurata dalla guerra in Ucraina, ha accelerato il processo di crisi dei regimi borghesi europei. Alla crisi economica strutturale di lungo corso si sono aggiunti, negli ultimi tre anni, gli effetti devastanti della crisi pandemica, che ha prodotto nel 2020 il crollo del Pil delle principali economie mondiali e, in ultimo, la crisi energetica con la conseguente spirale inflazionistica determinata dall’impennata dei prezzi del gas, occasionata dalla risposta di Mosca alle sanzioni economiche imposte dall’Ue alla Russia, ma frutto in gran misura delle speculazioni sui mercati che quotano le materie prime (il Ttf di Amsterdam). In tutti gli Stati europei, questo inasprimento della crisi ha accresciuto a dismisura le frizioni all’interno della borghesia, determinando una profonda instabilità dei governi di tutti i principali paesi, imperialisti e non. Dopo lo scossone alle elezioni legislative francesi in giugno, in cui il partito di Marine Le Pen è balzato dai precedenti 8 seggi agli attuali 89, è stata poi la volta dell’Inghilterra, dove si è assistito alla rovinosa caduta di Boris Johnson. In Repubblica Ceca, come in molti altri Stati europei, manifestazioni di massa si sono susseguite nelle ultime settimane in risposta agli aumenti dei prezzi dell’energia. Persino in Italia, dove a sostenere il governo vi era una coalizione rappresentativa di tutti i settori della borghesia, e per giunta guidata da un leader, Mario Draghi, che costituisce uno dei più autorevoli pilastri del capitale finanziario europeo, le frizioni inter-borghesi hanno prevalso e condotto alle elezioni di settembre. La vittoria di Giorgia Meloni e della coalizione di centro-destra era stata largamente anticipata dai sondaggi, che avevano evidenziato la profonda e, per certi versi, inestricabile, crisi del Pd.
Astensionismo record
Un primo dato che emerge in modo inequivocabile dall’analisi dei dati elettorali, conseguenza della su citata crisi e debolezza dei regimi borghesi, è l’elevata percentuale di astensionismo, la più alta nella storia dell’Italia del dopoguerra. Più di 1 elettore su 3 ha evitato di recarsi alle urne, a dimostrazione di quanto sia profondo e radicato il malessere delle classi subalterne non solo nei confronti dei partiti borghesi ma anche di quelli che si autodefiniscono di sinistra radicale. Questo dato non stupisce affatto: è l’inevitabile conseguenza del drammatico peggioramento delle condizioni di vita degli strati proletari e della piccola borghesia, che non è un fenomeno congiunturale ma un elemento strutturale di lunga data. È difatti da almeno una ventina di anni che tutti i governi che si alternano alla guida del paese sono costretti ad aggredire salari e diritti delle classi subalterne per garantire la tenuta dei profitti del grande capitale e provare ad onorare il pagamento degli interessi sull’enorme debito pubblico accumulato nei confronti dei centri della finanza mondiale (oltre il 150% del Pil). Se alle elezioni del 2018 un importante settore di piccola borghesia e di proletariato si era illuso che il M5s potesse porre un argine alle politiche imposte da Bruxelles, la fine di quelle illusioni ha aumentato il disincanto di importanti settori di massa verso una soluzione parlamentare dei suoi problemi. Questo disincanto, che ad oggi non trova ancora una sua rappresentazione al di fuori dell’arco parlamentare, è inevitabilmente destinato ad approfondirsi e a tramutarsi in lotta delle classi sociali subalterne, proprio per il carattere strutturale della crisi economica, bellica ed energetica.
Le convulsioni della piccola borghesia impoverita
Oggi, in tutta Europa, e in Italia in particolare, la classe sociale che è in maggior fibrillazione è di certo la piccola borghesia impoverita. I rincari delle bollette sono come una spada di Damocle sulla testa di centinaia di migliaia di piccole e medie imprese che rischiano di dover chiudere, o hanno già chiuso, la loro attività. Sono questi settori ad essersi principalmente rivolti alla leader dell’estrema destra, Giorgia Meloni, che con grande scaltrezza, opportunismo e furbizia politica ha saputo conquistare la fiducia di questi strati sociali, sottraendoli persino a forze di destra parimenti reazionarie e populiste, come Italexit di Paragone e la destra sovranista di Rizzo e Ingroia. Se si analizzano i dati elettorali, tuttavia, si vede che, complessivamente, i voti che guadagna Fdi coincidono approssimativamente con quelli che perde la Lega di Salvini. Si è cioè verificato un sostanziale travaso di voti dalla Lega, percepita dalla piccola borghesia come troppo subalterna ai diktat del grande capitale rappresentato da Draghi, verso FDI, che ha beneficiato, nell’immaginario di questi strati sociali, dell’essersi collocata all’opposizione del grande capitale (finta opposizione in realtà, visto che il suo partito ha votato tutti i principali decreti del governo Draghi). Seppur canti vittoria, il grande sconfitto delle elezioni è il M5s che passa dai quasi 11 milioni di voti alla Camera del 2018 ai circa 4,5 milioni di voti attuali. Un dato abbastanza scontato, visto che questa organizzazione, che era stata erroneamente percepita come “antisistema” da milioni di persone, ha mostrato il suo vero volto opportunista, costituendo il nucleo fondante di tutti e 3 i governi che si sono succeduti dal 2018 approfondendo le diseguaglianze sociali. Il Pd, che viene anch’esso considerato il grande sconfitto di queste elezioni, è, più correttamente, un partito sottoposto a un lento ma inesorabile logoramento. Alla Camera, ad esempio, perde circa 800.000 mila voti rispetto alle elezioni del 2018, ma mantiene all’incirca le stesse percentuali delle precedenti elezioni e in una situazione complessiva in cui vi è un calo complessivo di votanti di circa 5 milioni (circa il 10% rispetto alle precedenti elezioni). Il Pd conserva, sostanzialmente, la sua tradizionale base elettorale, rappresentata sia dai ceti medi impiegatizi, storicamente più inerti dal punto di vista della lotta di classe perché maggiormente garantiti nei diritti e nella continuità salariale, sia da quei settori di classe operaia ad oggi controllati ancora dalle grandi burocrazie sindacali confederali. Il lento e progressivo declino del PD deriva dalla corretta percezione, da parte di un progressivamente crescente settore di lavoratori, di quella che è la sua vera natura politica, ossia l’essere il principale riferimento del capitale finanziario europeo e quindi il responsabile principale dell’applicazione in Italia di quelle politiche ultraliberiste che dominano l’intera scena mondiale da circa trent’anni. Prima dell’accelerazione della crisi, prodotta dalla guerra, la spartizione dei fondi del Pnrr, destinati principalmente alla ristrutturazione del sistema di produzione industriale in direzione della green-economy, aveva prodotto un patto di ferro tra governo e Cgil. L’idea di fondo del banchiere Draghi era quella di intervenire sui problemi strutturali della produzione industriale italiana cercando di favorire una ripresa della produttività, vero tallone di Achille del sistema capitalistico italiano [1]. Ma l’impazzimento dei prezzi dell’energia ha fatto saltare l’equilibrio tra i vari settori di borghesia, riportando alla ribalta il malessere di quei settori (di borghesia piccola e media) maggiormente esposti alle oscillazioni dei costi di produzione. Tutta la discussione in campagna elettorale sulla necessità di uno scostamento dalla legge di bilancio e sulle modifiche delle linee di intervento del Pnrr è stata abilmente condotta da Meloni per accreditarsi come referente di questi settori di piccola borghesia in crisi. E le difficoltà per la Meloni e per il governo che si andrà ad instaurare passano principalmente ed esattamente per questo nodo scorsoio che si restringe sempre più attorno al collo dei rappresentanti politici della borghesia. Comunque, da quel che possiamo intuire, dopo aver appreso dei recenti amorevoli cinguettii tra Draghi, Cingolani e Meloni, le illusioni della piccola borghesia impoverita sembrano già segnate ancor prima che la partita abbia inizio. È in effetti assai improbabile che, nel momento probabilmente di maggior crisi dell’Ue dalla sua nascita, i banchieri europei possano scommettere ulteriormente i loro capitali nel tentativo di ridare ossigeno a centinaia di migliaia di imprese che già prima della guerra avevano grosse difficoltà a reggere la competizione sul mercato globale. Le minacce, senza alcun velo o ipocrisia, di Von der Leyen (“Vedremo il risultato delle elezioni in Italia, ma se le cose andranno in una situazione difficile, come nel caso di Polonia e Ungheria, abbiamo gli strumenti“) sono in tal senso abbastanza indicative di quello che è l’indirizzo dell’Ue nei confronti dei problemi dei ceti medi italiani. Gli Stati europei, a cominciare dalla Grecia, conoscono molto bene quelli che sono gli “strumenti” che l’imperialismo europeo utilizza usualmente per sedare le richieste di aiuto degli Stati in crisi. È dunque evidente che nessuna soluzione parlamentare potrà risolvere i problemi economici della piccola borghesia impoverita. Fino a quando si tratterà di accontentare qualche fascistello fanatico attraverso l’introduzione di misure contro gli africani, contro il reddito di cittadinanza o contro gli operai che fanno i picchetti, il nuovo governo proverà a soddisfare queste richieste. Anzi è molto probabile che dal versante dell’aggressione ai diritti e ai salari dei lavoratori il governo Meloni mostrerà tutto il suo piglio autoritario e reazionario. Ma questo non risolverà affatto i problemi economici dei ceti sociali che si sono rivolti a Meloni, la quale sa benissimo che la natura reazionaria della piccola borghesia è solo la sovrastruttura di appetiti materiali difficili da esaudire nel quadro dell’economia capitalistica globale. Ad oggi l’impressione che si ricava è che fosse molto più nazionalista il progetto iniziale del M5S, il quale stravinse le precedenti elezioni del 2018. Ricordiamo infatti che furono proprio le direttive dell’Ue, attraverso il suo esponente locale Mattarella, ad impedire una soluzione di tipo nazionalista, attraverso la rottura con l’UE, alla crisi della piccola borghesia: fu esattamente Mattarella a impedire che al ministero dell’economia del nascente governo venisse posto l’economista Savona, che, nelle parole del presidente italiano, rappresentava “un esponente che … potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro” [2]. Quel che accade oggi in Italia e in Europa è, in definitiva, qualcosa che ricorda molto le pulsioni che attraversarono i ceti medi europei, e che produssero l’ascesa dei movimenti nazionalisti negli anni 30 del secolo scorso. Quelle pulsioni, così come oggi, sebbene a partire da un quadro iniziale storicamente diverso, furono determinate dalla drammatica crisi del 1929, “risolta” poi dal conflitto imperialista attraverso la Seconda guerra mondiale. E quindi torna in tutta la sua attualità l’analisi che di questi movimenti fece Trotsky in quegli anni:
“Poiché la piccola borghesia è incapace di politica indipendente (per questo anche la “dittatura democratica” piccolo borghese è irrealizzabile), non le resta altra scelta che quella tra borghesia e proletariato. Nell’epoca dell’ascesa, della crescita e del fiorire del capitalismo, la piccola borghesia, nonostante acuti scoppi di malcontento, generalmente marciava obbedientemente ai ferri capitalistici. Né avrebbe potuto fare altro. Ma nelle condizioni della disgregazione capitalista e dell’impasse della situazione economica, la piccola borghesia si sforza, cerca, tenta di liberarsi dalle catene dei vecchi padroni e governanti della società.”
Ed è in fondo questa la ragione per la quale l’investitura della Meloni rappresenta solo l’ennesima, inutile convulsione della piccola borghesia in crisi.
L’assenza di un partito operaio
Anche in queste elezioni mancava un partito della classe operaia nato dal seno della stessa classe. Erano invece presenti alcuni residuati del riformismo di sinistra, da Rifondazione Comunista a Potere al popolo, che si sono coalizzati all’interno della lista di Unione Popolare, con esplicito riferimento all’esperienza della sinistra piccolo-borghese di Melenchon, oggi leader di una forza di sinistra populista molto attenta a conciliare le rivendicazioni di classe con gli interessi degli industriali francesi e dei banchieri che guidano l’UE. I risultati elettorali per UP sono stati più di un autentico fallimento, se si pensa che tale lista non è riuscita a raccogliere congrui consensi nemmeno nella roccaforte napoletana del suo leader De Magistris, ex sindaco della città. Per onestà intellettuale bisogna anche dire che l’esperimento di UP è stato penalizzato dalla presenza di una forza, il M5s, che avanzava lo stesso programma elettorale (difesa del reddito di cittadinanza, introduzione di un salario “iper-minimo”), e questo la dice lunga su quanto miserabile fosse il programma di UP, su cui non vale la pena spendere una parola in più di quelle già precedentemente spese [3]. È invece interessante osservare che Conte è riuscito a risalire la china, rispetto ai sondaggi pre-elettorali che davano il M5s in caduta libera, e a guadagnare il consenso di ampi strati di sottoproletariato e anche di proletariato fortemente impoverito. Non è in tal senso un caso che il M5S sia stato il primo partito al Sud e in molte città operaie (ad es. Taranto), dove le diseguaglianze sociali e la miseria estrema raggiungono le punte più elevate. Bisogna anche riconoscere che se il M5s ha perso ma non è crollato è stato soprattutto per le grandi capacità comunicative di Conte, a cui il proletariato, privo di una coscienza di classe, ha perdonato, ad esempio, di essere stato alla testa di un governo che con i decreti sicurezza ha condannato alla morte migliaia di migranti nel Mediterraneo e ridotto, quasi sino ad azzerarlo, il diritto allo sciopero e il dissenso della classe operaia e dei movimenti sociali. Ed è davvero paradossale, per non dire ridicolo, che continuino a richiamarsi al trotskismo e al leninismo (la tattica del “voto critico” viene completamente stravolta ed adattata ad uno scolastico quanto inutile opportunismo di chi non riesce nemmeno per una volta a distaccarsi dalla democrazia liberale e dai suoi rituali) alcune organizzazioni, come Sinistra Anticapitalista e Sinistra Classe Rivoluzione, che hanno dato indicazione di voto per l’autodefinitosi “uomo delle istituzioni” (borghesi) De Magistris, tutto infervorato a difendere la costituzione italiana dagli attacchi dei “fascisti”. Sarebbe interessante chiedere ai compagni di PRC, PaP, SA e SCR se hanno per caso letto l’articolo 42 della Costituzione, che, attraverso la tutela della proprietà privata dei mezzi di produzione, svela la natura borghese dello Stato nato dalla lotta “antifascista”. Né possiamo certo convenire con l’entusiasmo del Pcl, che dalla sua pagina web rivendica come un successo l’avere, notate bene, triplicato i voti della precedente tornata elettorale in Liguria (l’unica regione in cui sono riusciti a raccogliere le firme per candidarsi alle elezioni) ottenendo la stratosferica percentuale dello 0,66%. Ci farebbe piacere capire se la pagina web del Pcl sia per caso, in questi mesi, stata trasformata in un sito di satira politica.
Costruire il partito della classe operaia
La continuità della linea di politica economica del governo Draghi, nella nostra lettura, sarà garantita dal successo di Giorgia Meloni alle elezioni del 2022. Ma ciò avverrà in una fase di crisi profonda dell’economia mondiale, in cui il governo entrante dovrà accrescere l’aggressione ai salari e ai diritti dei lavoratori per tentare di arginare la bassa produttività del sistema di produzione italiano. In una fase, peraltro, in cui l’impennata inflazionistica produrrà l’ingresso nella povertà di fasce sempre più ampie di proletariato e piccola borghesia. Il proletariato manca di un suo partito, in grado di organizzare e coordinare le tante vertenze che nascono inevitabilmente nel paese per effetto della lotta di classe condotta dalla grande borghesia contro il proletariato, e tentare di invertire i rapporti di forza a partire dalla lotta di classe contro il grande capitale, cercando di attrarre a sé gli strati in fase di proletarizzazione di piccola borghesia. Alcuni importanti tentativi di ricostruzione di una organizzazione operaia (dalle lotte e dal lavoro di coordinamento degli operai del Si Cobas sino al tentativo di convergenza e insorgenza degli operai Gkn) costituiscono un percorso obbligato attraverso il quale dovrà necessariamente nascere il partito della classe operaia. Le scorciatoie di piccoli gruppi che impropriamente si definiscono partito, o addirittura proclamano di aver ricostruito l’Internazionale, sono francamente ridicole e farsesche; a maggior ragione quando taluni di questi “partiti”, chiedendo al governo italiano di sostenere con l’invio di armi “l’eroica resistenza ucraina”, diventano gli alfieri di sinistra dell’imperialismo dominante. Come la storia insegna, è solo a partire dalla necessità (dal nostro punto di vista impellente) del coordinamento di militanti rivoluzionari, comitati operai, organizzazioni dei disoccupati, assemblee di lotta (donne, studenti), che pure stanno lentamente nascendo nel nostro paese, che il movimento operaio potrà costruire, se saprà dotarsi di corrette impostazioni teoriche, quello strumento necessario a difendere, attraverso la lotta e non certo le elezioni, le rivendicazioni della classe lavoratrice e a prospettare la necessità di una società liberata dalla borghesia e dai fascisti.
Assalto al Cielo
Il Diario della Talpa
Prospettiva Operaia
Note:
[1] https://thenextrecession.wordpress.com/2022/09/23/italy-lurching-to-the-right/?fbclid=IwAR25w0qPt5yudJQmATad70Rk4SXIkVPPudGhZ1-bYEX_l6j37CXEuC35iK8 [2] https://www.agi.it/politica/discorso_mattarella_governo-3957981/news/2018-05-28/ [3] https://prospettivaoperaia.org/2022/09/23/per-i-lavoratori-e-le-lavoratrici-non-ce-nessuna-fiducia-da-riporre-nello-squallido-teatrino-elettorale-del-25-settembre/