Il 25 Aprile della borghesia e il nostro
«Il fascismo è un’organizzazione di lotta della borghesia nel momento e per i bisogni di una guerra civile» (L. Trotsky)
Il governo Meloni, che è sicuramente il più a destra e reazionario della storia repubblicana (a parte il governo Tambroni, dove il Msi che lo sosteneva non aveva fatto il passaggio verso il liberalismo reazionario di destra dell’attuale FdI ed era invece il diretto ed esplicito discendente del Pnf mussoliniano), è stato preceduto da allarmanti grida di ritorno al fascismo con la sua elezione. Noi non ci siamo uniti a tale coro di tante anime candide della sinistra perché accusare questo governo di aperta politica fascista significa non analizzare a fondo né il fenomeno Meloni, né il fenomeno del fascismo, e i rispettivi contesti nei quali nascono. Il 25 aprile può essere l’occasione per una seria riflessione. La giornata del 25 aprile rappresenta per noi sì la memoria della liberazione dalla ventennale dittatura fascista ma anche la denuncia del fatto che tale dittatura fu imposta alle classi popolari italiane dagli stessi padroni e grandi capitalisti che poi repentinamente, il 25 aprile del 1945, sfoggiarono coccarde antifasciste. Il 25 aprile è la storia eroica di chi è caduto con le armi in pugno per costruire una società nuova, liberata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dalla dittatura dei banchieri e degli industriali. L’invito da parte di ampi settori della sinistra alle istituzioni borghesi (perfino quando si tratta di missini) di partecipare alla giornata del 25 aprile è dal nostro punto di vista inaccettabile e vergognoso. E, tuttavia, non ci sorprende affatto, essendo le attuali forze politiche della sinistra istituzionale solo il risultato di un lungo processo di mutazione putrescente di quella organizzazione politica, il Pci stalinizzato, che tradì la rivoluzione operaia del dopoguerra.
La destra postfascista al potere
Quello uscito vittorioso alle elezioni dello scorso settembre è un governo forte per la stampa e i media, pennivendoli della borghesia, in realtà debole nelle urne (hanno votato per i partiti di destra meno del 35% di poco più del 60% degli aventi diritto, ovvero circa 11 milioni di persone). Ma quella destra nazionalista, orban-bannoniana, che prometteva sfaceli contro i salotti buoni, quando poi in quei salotti ci si è accomodata, ha come sempre repentinamente assunto ben altra “postura” politica. La sua evidente strategia, tipica della destra, è spostare l’attenzione di elettori illusi per anni da facili soluzioni alle proprie miserevoli condizioni verso questioni identitarie e propagandistiche. L’occhio strizzato (in questo, sì, c’è piena sovrapposizione con la propaganda fascista) ai ceti medio-piccoli, alla piccolissima-borghesia, prende così la forma ad esempio della battaglia contro il già miserevole “reddito di cittadinanza”. In un ceto ispirato dalle modalità argomentative dell’individualismo di matrice yankee, rimesse a nuovo dalla Destra repubblicana, impegnata ad opporsi al Welfare State (“lo Stato non metta le mani nelle nostre tasche”, “privatizzare scuola, sanità e pensioni”, “i programmi sociali sono immorali perché l’assistenzialismo è uno spreco”, “la protesta sociale è invidia”), Fratelli d’Italia e Lega trovano terreno fertile. Poi c’è tutto l’armamentario identitario della destra radicale: un fantomatico perenne allarme sicurezza e la solita ferocia anti-migranti, con protagonisti la coppia ministeriale Piantedosi-Salvini; la cultura in mano ad un’altra mirabolante coppia ministeriale, Sangiuliano (l’ammiratore di Dugin e De Benoist) e Valditara (un professore che spiega il crollo dell’impero romano con l’immigrazione clandestina); la difesa della (inventata) famiglia naturale e qui la coppia è costituita dalla fanatica religiosa ministra Rocella (“l’aborto non è un diritto”, “l’omotransfobia non è un’emergenza”) e l’ancor più oscurantista presidente della Camera Lorenzo Fontana (“l’aborto è la prima causa di femminicidio al mondo”, “la famiglia è una sola: uomo, donna, figli”). Ma se “Dio, patria e famiglia” è lo slogan che il governo di destra utilizzerà per cercare di legare a sé la sua base elettorale, l’inganno nei confronti dei proletari e delle masse non potrà durare a lungo e sarà impossibile nascondere gli attacchi indiscriminati che Meloni dovrà portare avanti contro i lavoratori e lo stato sociale nel contesto di una crisi economica senza precedenti. Non a caso nessuno dei provvedimenti “forti” della destra al governo si riferisce alla sfera economica, così come alle relazioni internazionali. La congiuntura economica, gli impegni con l’Europa e un debito pubblico arrivato al 160% del Pil, a sua volta stagnante, rendono l’Italia un Paese, de facto, commissariato. La legge di bilancio, per larga parte dettata da vincoli europei, quelli che all’opposizione e in campagna elettorale Meloni voleva combattere, è composta da piccole concessioni a certe categorie (ad esempio i grandi evasori fiscali) e sottrazioni propagandistiche ai ceti più deboli (cancellazione del reddito di cittadinanza e opposizione a qualsiasi forma di salario minimo). Sulla politica estera poi la sudditanza filoatlantista non ha nulla da invidiare a quella di Draghi e del Partito Democratico. Come era logico aspettarsi, il governo Meloni si pone come custode dello status quo in campo economico e internazionale, cercando di tenere semplicemente questi temi lontani dall’attenzione pubblica. Fratelli d’Italia e Lega vanno combattuti su ogni fronte, ma in quanto nazionalisti, clericali e reazionari, non in quanto fascisti (anche se al loro interno ne ospitano parecchi). L’esperienza storica del fascismo italiano insegna che esistono due importanti fattori che caratterizzano l’ascesa di un movimento fascista, che solitamente precedono la conquista totale delle istituzioni. Sia in Italia che successivamente in Germania col nazismo, agli inizi degli anni Venti del secolo scorso, si poneva la questione della crisi di potere ai vertici della borghesia a seguito degli scioperi e delle ondate di manifestazioni rivoluzionarie che imperversavano e riecheggiavano dalla Rivoluzione Russa; è il caso delle esperienze storiche del biennio rosso in Italia e delle repubbliche dei consigli in Germania dove il principale leitmotiv che veniva agitato dai rivoluzionari nelle fila del proletariato era “fare come in Russia”, ovvero seguire l’esempio dei Soviet e imporre la necessità di costruzione di un mondo nuovo su basi socialiste. Tuttavia la scelta delle alte sfere del capitalismo di affidarsi alle squadracce fasciste non fu soltanto la volontà di dover arginare un proletariato alla riscossa ma anche di dover risolvere da un lato una crisi profonda all’interno dei suoi stessi apparati istituzionali e dall’altro di dover risollevare le sorti di interi settori produttivi (specialmente l’industria pesante) duramente colpiti dalle conseguenze del primo conflitto mondiale. Per caso si assiste oggi ad un’accesa impetuosa della lotta di classe fra il proletariato e il capitalismo italiano fino a minare le stesse basi del sistema? Se non esiste questo scenario di guerra civile perché la borghesia dovrebbe puntare all’instaurazione della clava fascista quando riesce benissimo a stare a galla con la classica carta della democrazia borghese?
La natura sociale e le ragioni di classe del fascismo
Quindi, ogni seria analisi della società deve partire dai rapporti tra le classi. Se al sorgere del capitalismo la borghesia aveva bisogno di metodi rivoluzionari per affermarsi e durante il periodo di suo sviluppo e maturazione traduceva il proprio dominio in forme pacifiche e democratiche, nella fase decadente del capitalismo la borghesia è costretta ad utilizzare metodi da guerra civile per difendersi dal proletariato. Il grande capitale, la grande borghesia, non rappresenta però che una minoranza esigua della società ed ha quindi bisogno del sostegno e dell’utilizzo delle masse popolari piccolo-borghesi (e anche di una parte, per quanto minoritaria, del proletariato) per combattere e tenere in piedi il proprio sistema di sfruttamento. Ma a differenza della lettura semplicistica dei partiti comunisti ufficiali che leggevano i fascismi come tipica reazione borghese del momento, Trotsky sottolineava come a tal fine, il mantenimento del proprio dominio, il grande capitale dovesse mobilitare, far insorgere, armare, la piccola borghesia e ciò a suo rischio e pericolo perché il sostegno della piccola alla grande borghesia non si basa affatto su sentimenti di fiducia e fraternità. La piccola borghesia è pur sempre una classe diseredata, maltrattata, umiliata, all’interno del sistema di dominio borghese. Nel suo articolo “La sola via” Trotsky sottolinea: «pur servendosi del fascismo, la borghesia ne ha paura». Il fascismo basò il suo programma sulla demolizione delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici, sulla distruzione delle riforme sociali e di qualsiasi protagonismo della classe lavoratrice nella produzione ma anche sul completo annientamento dei diritti democratici. Il dominio della borghesia non solo entra in guerra con gli strumenti della democrazia proletaria ma anche in contraddizione con gli istituti della democrazia borghese. Da qui il doppio attacco del fascismo contro il marxismo e contro il parlamentarismo. Nella sua analisi del fascismo Trotsky individua due elementi che lo caratterizzano rispetto ad altre forme di reazione borghese. In primo luogo, esso nasce all’esterno delle istituzioni borghesi, è un movimento di massa con proprie organizzazioni armate (le Camicie Nere in Italia, le SA e SS in Germania), cosa che lo differenzia ad esempio dai golpe militari che avvengono per mano di pezzi dello Stato, e senza una base di massa. Sebbene non si opponga allo Stato borghese ma ne è anzi strumento di difesa, nelle sue fasi iniziali il fascismo schiera gruppi dirigenti di origini “plebee” non appartenenti alle classi dominanti. È una volta arrivato al potere che esso si integra pienamente con l’apparato statale, si “istituzionalizza”. In secondo luogo, il fascismo si distingue per la sua capacità di atomizzare il movimento operaio, annientando le sue organizzazioni, tutte, quelle comuniste e quelle socialdemocratiche (particolare non compreso dal comunismo ufficiale guidato da Mosca dopo l’uscita di scena del protagonismo politico di Lenin e che porterà alla folle teorizzazione del “socialfascismo”).
Finanziatori e manovalanza
I maggiori sostenitori economici del movimento fascista sono stati (oltre ai grandi possidenti agrari) i magnati di quella che viene definita “industria pesante” (metallurgica, mineraria, ecc…) e i banchieri che in essa avevano concentrato i propri interessi, la drastica riduzione dei salari e l’abolizione delle tutele sindacali diventano un’impellente necessità, il fascismo sarà lo strumento attraverso il quale la si otterrà. Inoltre sul piano della politica estera, per l’industria pesante furono fondamentali per salvare i propri profitti le commesse militari sia dello Stato italiano che delle nazioni “amiche” ed anche per questo fu maggiormente favorevole ad una politica di forza e di avventura imperialista. Ma il movimento fascista non poteva vivere e conquistare il potere con i soli finanziatori, occorrevano soldati. Perché il fascismo è sì strumento della grande borghesia ma è anche sollevazione della piccola borghesia (furiosa per la crescente pauperizzazione che la vedeva protagonista). Ciò non senza responsabilità della direzione del movimento operaio perché le forze socialiste si dimostrarono cieche dinanzi al fatto che le classi medie impoverite e il proletariato sviluppavano contro il grande capitale interessi in comune. Il proletariato avrebbe dovuto accattivarsi le classi medie rendendole convinte della sua capacità di condurre la società verso una nuova strada, con la forza e la sicurezza dell’azione rivoluzionaria e del programma socialista, non abbandonarle tra le braccia della reazione a causa dell’indecisione e degli errori delle proprie dirigenze. Nondimeno si tratta delle stesse classi medie che non nutrono alcuna simpatia nei confronti della grande borghesia e poiché i loro interessi sono in contrasto con quelli del grande capitale industriale e finanziario (internazionale, da cui la difesa di un’immaginaria patria da difendere) si può sostenere che esse attraversino una fase anticapitalistica. Ma, poiché le classi medie non sono vittime dello sfruttamento del lavoro ma della concorrenza esasperata e poi della concentrazione monopolista, e poiché esse sono legate in maniera spasmodica al loro piccolo privilegio rifiutando come la morte la condizione proletaria (per quanto può arrivare a guadagnare meno di un operaio, un commerciante si sente superiore ad esso come condizione sociale), il loro anticapitalismo è molto diverso da quello del proletariato, non volge lo sguardo al futuro ma al passato, non è rivoluzionario ma reazionario. È ben noto ad ogni marxista serio che l’eterogeneità delle classi medie fa assumere loro una posizione intermedia tra le due classi fondamentali della società, borghesia e proletariato, non potendo sviluppare una propria politica coesa, indipendente e coerente. Anche la loro rivolta quindi non riveste carattere autonomo e può orientarsi o verso il sostegno alla borghesia o verso il sostegno al proletariato. Negli anni 20 del secolo scorso, anche per gravi responsabilità della direzione tentennante del movimento operaio come detto, sappiamo bene com’è andata. Quando nel 1920 i metallurgici occupavano le fabbriche erano seguiti con simpatia da una buona parte della piccola borghesia. Ma il Partito Socialista si rivelò assolutamente incapace di guidare lo slancio rivoluzionario delle masse e portare lo scontro fino in fondo. «Guai al partito rivoluzionario che non sappia essere all’altezza della situazione» ammoniva Trotsky sempre nell’articolo “La sola via”, continuando:
«La piccola borghesia può rassegnarsi temporaneamente alle crescenti privazioni, se, sulla base della propria esperienza, si convince che il proletariato la può guidare su una nuova strada. Ma se il partito rivoluzionario, nonostante il continuo acutizzarsi della lotta di classe, si dimostra ancora una volta incapace di riunire attorno a sé la classe operaia, oscilla, si smarrisce, si contraddice, allora la piccola borghesia perde la pazienza e comincia a vedere negli operai rivoluzionari i responsabili delle sue miserie […] compare allora un partito il cui scopo immediato è di scatenare la piccola borghesia e di indirizzare il suo odio e la sua disperazione contro il proletariato […] La politica del riformismo toglie al proletariato la possibilità di dirigere le masse plebee della piccola borghesia e perciò stesso le trasforma in carne da cannone del fascismo».
La demagogia fascista
Benché rappresenti uno strumento di salvataggio del capitale, il fascismo non può, per risultare attrattivo in quel frangente storico e distinguersi quindi dai tradizionali partiti borghesi, non ricorrere ad un anticapitalismo di maniera, un anticapitalismo demagogico. Ma, essendo, come abbiam detto, tale anticapitalismo reazionario e non rivoluzionario, esso si sforza di non colpire realmente il sistema padronale, convogliando il sentimento anticapitalista delle masse nel più becero nazionalismo. Il nemico è il capitalismo straniero, non il proprio, la concorrenza esasperata e la concentrazione dei grandi gruppi industriali, non l’economia di mercato. Nell’ingannevole illusione di corporazioni del lavoro che comprendano padroni e dipendenti Mussolini promette ai lavoratori che nell’ambito delle corporazioni i loro padroni li tratteranno come i maestri di bottega delle corporazioni medioevali trattavano i loro dipendenti, collaboratori della produzione. Alla vigilia della Marcia su Roma, affermava Mussolini in un suo proclama: «Le genti del lavoro… nulla hanno da temere dal potere fascista. I loro giusti diritti saranno sinceramente tutelati». Così come nel suo discorso per la fondazione dei Fasci (23 marzo 1919) Mussolini manteneva un linguaggio volutamente pregno di quell’ambiguità che lo ha sempre caratterizzato: «Noi vogliamo mettere progressivamente in grado la classe operaia di dirigere le imprese, magari soltanto per persuaderla che non è facile condurre un’industria o un commercio». Senza base sociale, senza i plebei, il fascismo non rappresenterebbe più sé stesso, cioè un movimento con base di massa, e resterebbe sospeso nel vuoto di un potere fragile, annientabile da una congiura dei suoi rivali. Così è costretto, in qualche misura, a farsi interprete delle esigenze e delle aspirazioni dei suoi gregari plebei, sovrapponendo sempre più lo Stato fascista (ammantato di innovazione) a quello tradizionale (il vecchio Stato pre-fascismo). Il 13 gennaio 1923 Mussolini contrapponeva al Consiglio dei ministri un “Gran consiglio del fascismo” (fondato a dicembre 1922 come organo del Pnf e dal 1928 massimo organo costituzionale) composto dai principali dirigenti del partito. Il Gran consiglio decise, in una delle sue prime sedute, di costituire accanto all’esercito regolare la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dipendente personalmente dal Capo del governo. Nacquero la polizia segreta – Ovra – e il Tribunale speciale, istituito con legge del 26 novembre 1926. Tra il 1925 e il 1926 tutti gli altri partiti scomparvero. I quadri dell’esercito vennero rinnovati, numerosi ufficiali rimossi e sostituiti con elementi devoti al fascismo.
Ma fu proprio a questo punto che il padronato rimise immediatamente la briglia ai fascisti plebei, ai fascisti di movimento. In barba a qualsiasi fasulla retorica rivoluzionaria, che anche i neofascisti di oggi pretendono di sbandierare, il movimento fascista, per sua natura, non poteva evolversi in nessun altro modo. I magnati del capitale non avevano finanziato e favorito in tutti i modi il suo sviluppo, e cambiato personale politico, per affidare la difesa dei loro interessi ad agitatori e demagoghi, pretendono l’immediato rientro nei ranghi. Dopo l’assorbimento dello Stato nel partito fascista, si profilò l’imbrigliamento del partito ad opera dello Stato fascista. I fascisti che avevano un ruolo all’interno dell’apparato statale erano esclusivamente quelli più docili e servienti, i fascisti ritenuti meno addomesticabili (tra cui molti di quelli che avevano partecipato alla marcia su Roma) furono addirittura espulsi dal partito (con epurazioni già nel 1923, 1925, 1926, 1928), divenuto ormai un semplice strumento dello Stato, un organismo burocratico senza vita propria, mentre le milizie fasciste, anch’esse epurate, vennero praticamente ridotte all’impotenza e subordinate all’esercito regolare. La “Confederazione dei sindacati fascisti” fu sciolta e il suo segretario generale, Rossoni, allontanato dalla scena politica insieme a tutti i plebei “sindacalisti”. Insomma, reggendosi sempre meno sulle masse popolari in tutti i settori dello Stato e della società, la dittatura fascista si avvicinò sempre più alle altre forme di dittatura militare-poliziesca. La preoccupazione principale che lo Stato fascista manifesta attraverso le proprie misure economiche e sociali è quella di arrestare la caduta dei profitti e garantire la redditività delle imprese. Ciò innanzitutto attraverso un’azione diretta costantemente contro la classe operaia, creando le condizioni che consentano l’abbassamento dei salari: distruzione dei sindacati operai, soppressione delle loro istituzioni nella fabbrica come le commissioni interne, abolizione del diritto di sciopero, annullamento dei contratti collettivi, istituzione di un arbitrato obbligatorio per le controversie di lavoro che altro non era che una forma di soppressione di ogni forma di conflitto operaio per mezzo di sentenze arbitrali funzionali alla volontà padronale. Lottare contro il padronato significa ora essere nemici dello Stato! Per gli aderenti ai sindacati “rossi” si ricorreva poi alla persecuzione e alla violenza fisica e i padroni iniziarono ad assumere solo gli operai muniti della tessera sindacale fascista. Fino agli accordi “di Palazzo Vidoni” del 1925, in cui la Confederazione generale dell’Industria riconobbe ai sindacati fascisti un monopolio esclusivo: essi soltanto avrebbero potuto stipulare contratti collettivi di lavoro (fino allo svuotamento totale della loro funzione). Le federazioni sindacali ancora esistenti furono sciolte, i loro beni confiscati. Alla fine del 1926 anche la Cgl, che esisteva ormai solo di nome, venne a sua volta definitivamente liquidata.
La lotta al fascismo
La specificità del fascismo italiano e del nazismo tedesco era completamente sfuggita ai partiti comunisti che sottovalutavano il pericolo e assimilavano lo squadrismo fascista alla reazione borghese tout court, teorizzando che esso avrebbe distrutto innanzitutto le illusioni democratiche creando condizioni favorevoli all’offensiva rivoluzionaria. Da ciò l’opposizione alla tattica del fronte unico, in Germania qualche anno dopo, portata avanti dall’Internazionale comunista stalinizzata, che univa al radicalismo verbale il rifiuto di favorire e organizzare una lotta di massa, sfruttando le contraddizioni delle organizzazioni riformiste, minacciate a loro volta dall’offensiva nera. La criminale socialdemocrazia tedesca non si sarebbe certo battuta come un solo corpo contro il nazismo ma avrebbe reagito in ordine sparso se fosse stata trascinata seriamente nella lotta ad esso: «La politica del fronte unico ha lo scopo di separare quelli che vogliono battersi da quelli che non lo vogliono; di spingere avanti coloro che oscillano; infine di compromettere i dirigenti capitolardi agli occhi degli operai e di rafforzare in tal modo la combattività in questi ultimi» (L. Trotsky, La Sola Via). Nel 1928, invece, il VI Congresso dell’Internazionale Comunista aveva sancito la teoria del “socialfascismo” e del “Terzo Periodo”, elaborata da Stalin e Bucharin, secondo cui si sarebbe presto aperta una terza fase del capitalismo nella quale i partiti della sinistra riformista, inclusi i partiti socialisti operai, venivano praticamente assimilati a quelli fascisti (da cui la definizione di “socialfascisti”), in una battaglia unitaria contro i comunisti. Quale debolezza teorica e analitica, come ricorda sempre Trotsky:
«Ammettiamo che la socialdemocrazia, senza preoccuparsi dei suoi operai, voglia mercanteggiare la propria tolleranza nei confronti di Hitler. Ma il fascismo non ha bisogno di una simile merce: non ha bisogno che la socialdemocrazia sia tollerante, ha bisogno di eliminarla. Il governo di Hitler non potrà assolvere alla propria funzione se non dopo aver spezzato la resistenza operaia e battuto tutte le organizzazioni che potrebbero opporre questa resistenza. Questa è la funzione storica del fascismo. Gli staliniani si limitano a una valutazione puramente psicologica, o, più esattamente, morale dei piccolo-borghesi vili e avidi che dirigono la socialdemocrazia. Si può forse supporre che questi traditori patentati rompano con la borghesia e si oppongano ad essa? Un simile impostazione idealistica ha ben poco a che vedere con il marxismo che non parte da quello che gli individui pensano di sé stessi e da quello che auspicano, bensì dalle condizioni in cui sono posti e dai mutamenti che possono intervenire in queste condizioni. […] Certo, il fascismo non minaccia in nessun modo il regime borghese in difesa del quale opera la socialdemocrazia. Ma il fascismo minaccia la funzione che la socialdemocrazia assolve nel regime borghese e gli utili che ne ricava. Se gli staliniani dimenticano questo aspetto della questione, la socialdemocrazia non perde di vista per un solo istante questo mortale pericolo che la minaccia – minaccia non la borghesia, ma direttamente la socialdemocrazia – in caso di vittoria del fascismo»(ibid.).
Senza vergogna, poi, al VII Congresso dell’Internazionale Comunista del 1935, con una giravolta di 180°, divenuta indifendibile la teoria del socialfascismo e del Terzo Periodo, lo stalinismo tirò fuori dal cilindro quella altrettanto tragica dei “fronti popolari” (di cui anche Italia sarà vittima alla caduta del regime), con l’unità antifascista non confinata ai partiti operai e piccolo-borghesi progressisti (come nel fronte unico di lotta di Lenin e Trotsky) ma estesa anche ai partiti della grande borghesia liberale, finanche ai monarchici. Inoltre, quella che era un’unità d’azione nel campo della lotta al fascismo divenne il progetto di un blocco politico stabile della classe operaia con la parte della borghesia liberale ritenuta più illuminata (posizione politica vaneggiata ancora oggi dai residui bellici dello stalinismo). I borghesi temono certamente il flagello fascista, ma temono di più il potere operaio. Per conciliare queste due paure, la loro fantasia ha concepito una soluzione: i fronti popolari, che abbaiano contro il fascismo, ma si guardano bene dal prendere qualsiasi radicale misura atta ad estirparne le radici reali.
Per un 25 aprile di classe
Vista da un punto di vista di classe, l’unico che ci può realmente interessare, la lotta contro il fascismo doveva quindi essere in primo luogo la lotta contro il capitalismo, che aveva ora assunto la sua forma più brutale e trasparente. Esemplificando il concetto, doveva essere una lotta per la rivoluzione socialista. La Resistenza invece virò bruscamente verso l’unità nazionale, per la salvezza della patria, cioè la salvezza della borghesia e del suo potere. Il Partito Comunista d’Italia stalinizzato svolse una parte fondamentale in questo tradimento, i cui strascichi pesano enormemente ancora oggi. La maggioranza dei ricordi celebrativi che se ne fanno, puntano molto su questa narrazione, che al fascismo contrappone democrazia e Costituzione. Lo Stato “democratico” che gli successe fu invece ancora completamente infettato dal morbo fascista, così come lo Stato “democratico” che l’aveva preceduto conteneva già in nuce lo stesso morbo. Gli alti gradi dell’amministrazione, dell’esercito, della polizia, della magistratura, rimasero interamente nelle mani di complici del regime, oltre che nelle mani di quegli stessi che avevano consegnato al fascismo le chiavi del potere. Lo Stato borghese bisognerebbe svuotarlo e spezzarlo, sic et simpliciter. Il 25 aprile segna un momento topico all’interno di un articolato processo rivoluzionario che avrebbe certamente condotto l’Italia verso una prospettiva socialista se la direzione politica del proletariato, innanzitutto il Partito Comunista Italiano, fosse stata all’altezza dei suoi compiti storici. Ma ciò non avvenne perché il Pci, divenuto durante gli anni bui della controrivoluzione stalinista, una sorta di ambasciata di Mosca in Italia, non poteva e non aveva nessuna intenzione di tentare “l’assalto al cielo”. La Terza Internazionale stalinizzata, passata da Comintern a Cominform, svolse il ruolo oggettivo di baluardo della controrivoluzione a livello mondiale. L’Italia doveva rientrare tra i paesi sotto la protezione strategica degli Stati Uniti d’America, quindi il Pci, sordo alla spinta delle classi popolari, doveva portare avanti una politica di collaborazione di classe con lo stesso nemico che per due decenni aveva alimentato, finanziato e armato le squadre fasciste e poi il regime stesso. Con la “svolta di Salerno” Togliatti impose la smobilitazione delle fabbriche occupate, il disarmo delle formazioni spontanee di combattenti comunisti non inquadrate nel Pci, la pacificazione nazionale che avrebbe portato alla vergognosa amnistia per tutti i fascisti. Il 25 aprile rappresenta da un lato la manifestazione dello straordinario coraggio e l’incredibile senso di abnegazione della nostra classe, dall’altro il fallimento criminale dello stalinismo italiano e mondiale. Decadenza capitalista, regime economico dei monopoli, unità nazionale, impoverimento del ceto medio e impossibilità per i lavoratori di migliorare le proprie condizioni di vita all’interno dell’attuale sistema in crisi, sono concetti che risuonano tutt’oggi nel dibattito politico ed economico, donando a tali discussioni un’attualità che le spinge ben oltre la semplice commemorazione storica. Il fascismo non può essere efficacemente combattuto e definitivamente sconfitto se non attraverso la rivoluzione proletaria. Qualsiasi “antifascismo” che la rifiuti non è che un vaneggiamento e, cosa ancor più grave, un imbroglio.
La Redazione
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Il 25 Aprile della borghesia e il nostro
«Il fascismo è un’organizzazione di lotta della borghesia nel momento e per i bisogni di una guerra civile» (L. Trotsky)
Il governo Meloni, che è sicuramente il più a destra e reazionario della storia repubblicana (a parte il governo Tambroni, dove il Msi che lo sosteneva non aveva fatto il passaggio verso il liberalismo reazionario di destra dell’attuale FdI ed era invece il diretto ed esplicito discendente del Pnf mussoliniano), è stato preceduto da allarmanti grida di ritorno al fascismo con la sua elezione. Noi non ci siamo uniti a tale coro di tante anime candide della sinistra perché accusare questo governo di aperta politica fascista significa non analizzare a fondo né il fenomeno Meloni, né il fenomeno del fascismo, e i rispettivi contesti nei quali nascono. Il 25 aprile può essere l’occasione per una seria riflessione. La giornata del 25 aprile rappresenta per noi sì la memoria della liberazione dalla ventennale dittatura fascista ma anche la denuncia del fatto che tale dittatura fu imposta alle classi popolari italiane dagli stessi padroni e grandi capitalisti che poi repentinamente, il 25 aprile del 1945, sfoggiarono coccarde antifasciste. Il 25 aprile è la storia eroica di chi è caduto con le armi in pugno per costruire una società nuova, liberata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dalla dittatura dei banchieri e degli industriali. L’invito da parte di ampi settori della sinistra alle istituzioni borghesi (perfino quando si tratta di missini) di partecipare alla giornata del 25 aprile è dal nostro punto di vista inaccettabile e vergognoso. E, tuttavia, non ci sorprende affatto, essendo le attuali forze politiche della sinistra istituzionale solo il risultato di un lungo processo di mutazione putrescente di quella organizzazione politica, il Pci stalinizzato, che tradì la rivoluzione operaia del dopoguerra.
La destra postfascista al potere
Quello uscito vittorioso alle elezioni dello scorso settembre è un governo forte per la stampa e i media, pennivendoli della borghesia, in realtà debole nelle urne (hanno votato per i partiti di destra meno del 35% di poco più del 60% degli aventi diritto, ovvero circa 11 milioni di persone). Ma quella destra nazionalista, orban-bannoniana, che prometteva sfaceli contro i salotti buoni, quando poi in quei salotti ci si è accomodata, ha come sempre repentinamente assunto ben altra “postura” politica. La sua evidente strategia, tipica della destra, è spostare l’attenzione di elettori illusi per anni da facili soluzioni alle proprie miserevoli condizioni verso questioni identitarie e propagandistiche. L’occhio strizzato (in questo, sì, c’è piena sovrapposizione con la propaganda fascista) ai ceti medio-piccoli, alla piccolissima-borghesia, prende così la forma ad esempio della battaglia contro il già miserevole “reddito di cittadinanza”. In un ceto ispirato dalle modalità argomentative dell’individualismo di matrice yankee, rimesse a nuovo dalla Destra repubblicana, impegnata ad opporsi al Welfare State (“lo Stato non metta le mani nelle nostre tasche”, “privatizzare scuola, sanità e pensioni”, “i programmi sociali sono immorali perché l’assistenzialismo è uno spreco”, “la protesta sociale è invidia”), Fratelli d’Italia e Lega trovano terreno fertile. Poi c’è tutto l’armamentario identitario della destra radicale: un fantomatico perenne allarme sicurezza e la solita ferocia anti-migranti, con protagonisti la coppia ministeriale Piantedosi-Salvini; la cultura in mano ad un’altra mirabolante coppia ministeriale, Sangiuliano (l’ammiratore di Dugin e De Benoist) e Valditara (un professore che spiega il crollo dell’impero romano con l’immigrazione clandestina); la difesa della (inventata) famiglia naturale e qui la coppia è costituita dalla fanatica religiosa ministra Rocella (“l’aborto non è un diritto”, “l’omotransfobia non è un’emergenza”) e l’ancor più oscurantista presidente della Camera Lorenzo Fontana (“l’aborto è la prima causa di femminicidio al mondo”, “la famiglia è una sola: uomo, donna, figli”). Ma se “Dio, patria e famiglia” è lo slogan che il governo di destra utilizzerà per cercare di legare a sé la sua base elettorale, l’inganno nei confronti dei proletari e delle masse non potrà durare a lungo e sarà impossibile nascondere gli attacchi indiscriminati che Meloni dovrà portare avanti contro i lavoratori e lo stato sociale nel contesto di una crisi economica senza precedenti. Non a caso nessuno dei provvedimenti “forti” della destra al governo si riferisce alla sfera economica, così come alle relazioni internazionali. La congiuntura economica, gli impegni con l’Europa e un debito pubblico arrivato al 160% del Pil, a sua volta stagnante, rendono l’Italia un Paese, de facto, commissariato. La legge di bilancio, per larga parte dettata da vincoli europei, quelli che all’opposizione e in campagna elettorale Meloni voleva combattere, è composta da piccole concessioni a certe categorie (ad esempio i grandi evasori fiscali) e sottrazioni propagandistiche ai ceti più deboli (cancellazione del reddito di cittadinanza e opposizione a qualsiasi forma di salario minimo). Sulla politica estera poi la sudditanza filoatlantista non ha nulla da invidiare a quella di Draghi e del Partito Democratico. Come era logico aspettarsi, il governo Meloni si pone come custode dello status quo in campo economico e internazionale, cercando di tenere semplicemente questi temi lontani dall’attenzione pubblica. Fratelli d’Italia e Lega vanno combattuti su ogni fronte, ma in quanto nazionalisti, clericali e reazionari, non in quanto fascisti (anche se al loro interno ne ospitano parecchi). L’esperienza storica del fascismo italiano insegna che esistono due importanti fattori che caratterizzano l’ascesa di un movimento fascista, che solitamente precedono la conquista totale delle istituzioni. Sia in Italia che successivamente in Germania col nazismo, agli inizi degli anni Venti del secolo scorso, si poneva la questione della crisi di potere ai vertici della borghesia a seguito degli scioperi e delle ondate di manifestazioni rivoluzionarie che imperversavano e riecheggiavano dalla Rivoluzione Russa; è il caso delle esperienze storiche del biennio rosso in Italia e delle repubbliche dei consigli in Germania dove il principale leitmotiv che veniva agitato dai rivoluzionari nelle fila del proletariato era “fare come in Russia”, ovvero seguire l’esempio dei Soviet e imporre la necessità di costruzione di un mondo nuovo su basi socialiste. Tuttavia la scelta delle alte sfere del capitalismo di affidarsi alle squadracce fasciste non fu soltanto la volontà di dover arginare un proletariato alla riscossa ma anche di dover risolvere da un lato una crisi profonda all’interno dei suoi stessi apparati istituzionali e dall’altro di dover risollevare le sorti di interi settori produttivi (specialmente l’industria pesante) duramente colpiti dalle conseguenze del primo conflitto mondiale. Per caso si assiste oggi ad un’accesa impetuosa della lotta di classe fra il proletariato e il capitalismo italiano fino a minare le stesse basi del sistema? Se non esiste questo scenario di guerra civile perché la borghesia dovrebbe puntare all’instaurazione della clava fascista quando riesce benissimo a stare a galla con la classica carta della democrazia borghese?
La natura sociale e le ragioni di classe del fascismo
Quindi, ogni seria analisi della società deve partire dai rapporti tra le classi. Se al sorgere del capitalismo la borghesia aveva bisogno di metodi rivoluzionari per affermarsi e durante il periodo di suo sviluppo e maturazione traduceva il proprio dominio in forme pacifiche e democratiche, nella fase decadente del capitalismo la borghesia è costretta ad utilizzare metodi da guerra civile per difendersi dal proletariato. Il grande capitale, la grande borghesia, non rappresenta però che una minoranza esigua della società ed ha quindi bisogno del sostegno e dell’utilizzo delle masse popolari piccolo-borghesi (e anche di una parte, per quanto minoritaria, del proletariato) per combattere e tenere in piedi il proprio sistema di sfruttamento. Ma a differenza della lettura semplicistica dei partiti comunisti ufficiali che leggevano i fascismi come tipica reazione borghese del momento, Trotsky sottolineava come a tal fine, il mantenimento del proprio dominio, il grande capitale dovesse mobilitare, far insorgere, armare, la piccola borghesia e ciò a suo rischio e pericolo perché il sostegno della piccola alla grande borghesia non si basa affatto su sentimenti di fiducia e fraternità. La piccola borghesia è pur sempre una classe diseredata, maltrattata, umiliata, all’interno del sistema di dominio borghese. Nel suo articolo “La sola via” Trotsky sottolinea: «pur servendosi del fascismo, la borghesia ne ha paura». Il fascismo basò il suo programma sulla demolizione delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici, sulla distruzione delle riforme sociali e di qualsiasi protagonismo della classe lavoratrice nella produzione ma anche sul completo annientamento dei diritti democratici. Il dominio della borghesia non solo entra in guerra con gli strumenti della democrazia proletaria ma anche in contraddizione con gli istituti della democrazia borghese. Da qui il doppio attacco del fascismo contro il marxismo e contro il parlamentarismo. Nella sua analisi del fascismo Trotsky individua due elementi che lo caratterizzano rispetto ad altre forme di reazione borghese. In primo luogo, esso nasce all’esterno delle istituzioni borghesi, è un movimento di massa con proprie organizzazioni armate (le Camicie Nere in Italia, le SA e SS in Germania), cosa che lo differenzia ad esempio dai golpe militari che avvengono per mano di pezzi dello Stato, e senza una base di massa. Sebbene non si opponga allo Stato borghese ma ne è anzi strumento di difesa, nelle sue fasi iniziali il fascismo schiera gruppi dirigenti di origini “plebee” non appartenenti alle classi dominanti. È una volta arrivato al potere che esso si integra pienamente con l’apparato statale, si “istituzionalizza”. In secondo luogo, il fascismo si distingue per la sua capacità di atomizzare il movimento operaio, annientando le sue organizzazioni, tutte, quelle comuniste e quelle socialdemocratiche (particolare non compreso dal comunismo ufficiale guidato da Mosca dopo l’uscita di scena del protagonismo politico di Lenin e che porterà alla folle teorizzazione del “socialfascismo”).
Finanziatori e manovalanza
I maggiori sostenitori economici del movimento fascista sono stati (oltre ai grandi possidenti agrari) i magnati di quella che viene definita “industria pesante” (metallurgica, mineraria, ecc…) e i banchieri che in essa avevano concentrato i propri interessi, la drastica riduzione dei salari e l’abolizione delle tutele sindacali diventano un’impellente necessità, il fascismo sarà lo strumento attraverso il quale la si otterrà. Inoltre sul piano della politica estera, per l’industria pesante furono fondamentali per salvare i propri profitti le commesse militari sia dello Stato italiano che delle nazioni “amiche” ed anche per questo fu maggiormente favorevole ad una politica di forza e di avventura imperialista. Ma il movimento fascista non poteva vivere e conquistare il potere con i soli finanziatori, occorrevano soldati. Perché il fascismo è sì strumento della grande borghesia ma è anche sollevazione della piccola borghesia (furiosa per la crescente pauperizzazione che la vedeva protagonista). Ciò non senza responsabilità della direzione del movimento operaio perché le forze socialiste si dimostrarono cieche dinanzi al fatto che le classi medie impoverite e il proletariato sviluppavano contro il grande capitale interessi in comune. Il proletariato avrebbe dovuto accattivarsi le classi medie rendendole convinte della sua capacità di condurre la società verso una nuova strada, con la forza e la sicurezza dell’azione rivoluzionaria e del programma socialista, non abbandonarle tra le braccia della reazione a causa dell’indecisione e degli errori delle proprie dirigenze. Nondimeno si tratta delle stesse classi medie che non nutrono alcuna simpatia nei confronti della grande borghesia e poiché i loro interessi sono in contrasto con quelli del grande capitale industriale e finanziario (internazionale, da cui la difesa di un’immaginaria patria da difendere) si può sostenere che esse attraversino una fase anticapitalistica. Ma, poiché le classi medie non sono vittime dello sfruttamento del lavoro ma della concorrenza esasperata e poi della concentrazione monopolista, e poiché esse sono legate in maniera spasmodica al loro piccolo privilegio rifiutando come la morte la condizione proletaria (per quanto può arrivare a guadagnare meno di un operaio, un commerciante si sente superiore ad esso come condizione sociale), il loro anticapitalismo è molto diverso da quello del proletariato, non volge lo sguardo al futuro ma al passato, non è rivoluzionario ma reazionario. È ben noto ad ogni marxista serio che l’eterogeneità delle classi medie fa assumere loro una posizione intermedia tra le due classi fondamentali della società, borghesia e proletariato, non potendo sviluppare una propria politica coesa, indipendente e coerente. Anche la loro rivolta quindi non riveste carattere autonomo e può orientarsi o verso il sostegno alla borghesia o verso il sostegno al proletariato. Negli anni 20 del secolo scorso, anche per gravi responsabilità della direzione tentennante del movimento operaio come detto, sappiamo bene com’è andata. Quando nel 1920 i metallurgici occupavano le fabbriche erano seguiti con simpatia da una buona parte della piccola borghesia. Ma il Partito Socialista si rivelò assolutamente incapace di guidare lo slancio rivoluzionario delle masse e portare lo scontro fino in fondo. «Guai al partito rivoluzionario che non sappia essere all’altezza della situazione» ammoniva Trotsky sempre nell’articolo “La sola via”, continuando:
«La piccola borghesia può rassegnarsi temporaneamente alle crescenti privazioni, se, sulla base della propria esperienza, si convince che il proletariato la può guidare su una nuova strada. Ma se il partito rivoluzionario, nonostante il continuo acutizzarsi della lotta di classe, si dimostra ancora una volta incapace di riunire attorno a sé la classe operaia, oscilla, si smarrisce, si contraddice, allora la piccola borghesia perde la pazienza e comincia a vedere negli operai rivoluzionari i responsabili delle sue miserie […] compare allora un partito il cui scopo immediato è di scatenare la piccola borghesia e di indirizzare il suo odio e la sua disperazione contro il proletariato […] La politica del riformismo toglie al proletariato la possibilità di dirigere le masse plebee della piccola borghesia e perciò stesso le trasforma in carne da cannone del fascismo».
La demagogia fascista
Benché rappresenti uno strumento di salvataggio del capitale, il fascismo non può, per risultare attrattivo in quel frangente storico e distinguersi quindi dai tradizionali partiti borghesi, non ricorrere ad un anticapitalismo di maniera, un anticapitalismo demagogico. Ma, essendo, come abbiam detto, tale anticapitalismo reazionario e non rivoluzionario, esso si sforza di non colpire realmente il sistema padronale, convogliando il sentimento anticapitalista delle masse nel più becero nazionalismo. Il nemico è il capitalismo straniero, non il proprio, la concorrenza esasperata e la concentrazione dei grandi gruppi industriali, non l’economia di mercato. Nell’ingannevole illusione di corporazioni del lavoro che comprendano padroni e dipendenti Mussolini promette ai lavoratori che nell’ambito delle corporazioni i loro padroni li tratteranno come i maestri di bottega delle corporazioni medioevali trattavano i loro dipendenti, collaboratori della produzione. Alla vigilia della Marcia su Roma, affermava Mussolini in un suo proclama: «Le genti del lavoro… nulla hanno da temere dal potere fascista. I loro giusti diritti saranno sinceramente tutelati». Così come nel suo discorso per la fondazione dei Fasci (23 marzo 1919) Mussolini manteneva un linguaggio volutamente pregno di quell’ambiguità che lo ha sempre caratterizzato: «Noi vogliamo mettere progressivamente in grado la classe operaia di dirigere le imprese, magari soltanto per persuaderla che non è facile condurre un’industria o un commercio». Senza base sociale, senza i plebei, il fascismo non rappresenterebbe più sé stesso, cioè un movimento con base di massa, e resterebbe sospeso nel vuoto di un potere fragile, annientabile da una congiura dei suoi rivali. Così è costretto, in qualche misura, a farsi interprete delle esigenze e delle aspirazioni dei suoi gregari plebei, sovrapponendo sempre più lo Stato fascista (ammantato di innovazione) a quello tradizionale (il vecchio Stato pre-fascismo). Il 13 gennaio 1923 Mussolini contrapponeva al Consiglio dei ministri un “Gran consiglio del fascismo” (fondato a dicembre 1922 come organo del Pnf e dal 1928 massimo organo costituzionale) composto dai principali dirigenti del partito. Il Gran consiglio decise, in una delle sue prime sedute, di costituire accanto all’esercito regolare la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dipendente personalmente dal Capo del governo. Nacquero la polizia segreta – Ovra – e il Tribunale speciale, istituito con legge del 26 novembre 1926. Tra il 1925 e il 1926 tutti gli altri partiti scomparvero. I quadri dell’esercito vennero rinnovati, numerosi ufficiali rimossi e sostituiti con elementi devoti al fascismo.
Ma fu proprio a questo punto che il padronato rimise immediatamente la briglia ai fascisti plebei, ai fascisti di movimento. In barba a qualsiasi fasulla retorica rivoluzionaria, che anche i neofascisti di oggi pretendono di sbandierare, il movimento fascista, per sua natura, non poteva evolversi in nessun altro modo. I magnati del capitale non avevano finanziato e favorito in tutti i modi il suo sviluppo, e cambiato personale politico, per affidare la difesa dei loro interessi ad agitatori e demagoghi, pretendono l’immediato rientro nei ranghi. Dopo l’assorbimento dello Stato nel partito fascista, si profilò l’imbrigliamento del partito ad opera dello Stato fascista. I fascisti che avevano un ruolo all’interno dell’apparato statale erano esclusivamente quelli più docili e servienti, i fascisti ritenuti meno addomesticabili (tra cui molti di quelli che avevano partecipato alla marcia su Roma) furono addirittura espulsi dal partito (con epurazioni già nel 1923, 1925, 1926, 1928), divenuto ormai un semplice strumento dello Stato, un organismo burocratico senza vita propria, mentre le milizie fasciste, anch’esse epurate, vennero praticamente ridotte all’impotenza e subordinate all’esercito regolare. La “Confederazione dei sindacati fascisti” fu sciolta e il suo segretario generale, Rossoni, allontanato dalla scena politica insieme a tutti i plebei “sindacalisti”. Insomma, reggendosi sempre meno sulle masse popolari in tutti i settori dello Stato e della società, la dittatura fascista si avvicinò sempre più alle altre forme di dittatura militare-poliziesca. La preoccupazione principale che lo Stato fascista manifesta attraverso le proprie misure economiche e sociali è quella di arrestare la caduta dei profitti e garantire la redditività delle imprese. Ciò innanzitutto attraverso un’azione diretta costantemente contro la classe operaia, creando le condizioni che consentano l’abbassamento dei salari: distruzione dei sindacati operai, soppressione delle loro istituzioni nella fabbrica come le commissioni interne, abolizione del diritto di sciopero, annullamento dei contratti collettivi, istituzione di un arbitrato obbligatorio per le controversie di lavoro che altro non era che una forma di soppressione di ogni forma di conflitto operaio per mezzo di sentenze arbitrali funzionali alla volontà padronale. Lottare contro il padronato significa ora essere nemici dello Stato! Per gli aderenti ai sindacati “rossi” si ricorreva poi alla persecuzione e alla violenza fisica e i padroni iniziarono ad assumere solo gli operai muniti della tessera sindacale fascista. Fino agli accordi “di Palazzo Vidoni” del 1925, in cui la Confederazione generale dell’Industria riconobbe ai sindacati fascisti un monopolio esclusivo: essi soltanto avrebbero potuto stipulare contratti collettivi di lavoro (fino allo svuotamento totale della loro funzione). Le federazioni sindacali ancora esistenti furono sciolte, i loro beni confiscati. Alla fine del 1926 anche la Cgl, che esisteva ormai solo di nome, venne a sua volta definitivamente liquidata.
La lotta al fascismo
La specificità del fascismo italiano e del nazismo tedesco era completamente sfuggita ai partiti comunisti che sottovalutavano il pericolo e assimilavano lo squadrismo fascista alla reazione borghese tout court, teorizzando che esso avrebbe distrutto innanzitutto le illusioni democratiche creando condizioni favorevoli all’offensiva rivoluzionaria. Da ciò l’opposizione alla tattica del fronte unico, in Germania qualche anno dopo, portata avanti dall’Internazionale comunista stalinizzata, che univa al radicalismo verbale il rifiuto di favorire e organizzare una lotta di massa, sfruttando le contraddizioni delle organizzazioni riformiste, minacciate a loro volta dall’offensiva nera. La criminale socialdemocrazia tedesca non si sarebbe certo battuta come un solo corpo contro il nazismo ma avrebbe reagito in ordine sparso se fosse stata trascinata seriamente nella lotta ad esso: «La politica del fronte unico ha lo scopo di separare quelli che vogliono battersi da quelli che non lo vogliono; di spingere avanti coloro che oscillano; infine di compromettere i dirigenti capitolardi agli occhi degli operai e di rafforzare in tal modo la combattività in questi ultimi» (L. Trotsky, La Sola Via). Nel 1928, invece, il VI Congresso dell’Internazionale Comunista aveva sancito la teoria del “socialfascismo” e del “Terzo Periodo”, elaborata da Stalin e Bucharin, secondo cui si sarebbe presto aperta una terza fase del capitalismo nella quale i partiti della sinistra riformista, inclusi i partiti socialisti operai, venivano praticamente assimilati a quelli fascisti (da cui la definizione di “socialfascisti”), in una battaglia unitaria contro i comunisti. Quale debolezza teorica e analitica, come ricorda sempre Trotsky:
«Ammettiamo che la socialdemocrazia, senza preoccuparsi dei suoi operai, voglia mercanteggiare la propria tolleranza nei confronti di Hitler. Ma il fascismo non ha bisogno di una simile merce: non ha bisogno che la socialdemocrazia sia tollerante, ha bisogno di eliminarla. Il governo di Hitler non potrà assolvere alla propria funzione se non dopo aver spezzato la resistenza operaia e battuto tutte le organizzazioni che potrebbero opporre questa resistenza. Questa è la funzione storica del fascismo. Gli staliniani si limitano a una valutazione puramente psicologica, o, più esattamente, morale dei piccolo-borghesi vili e avidi che dirigono la socialdemocrazia. Si può forse supporre che questi traditori patentati rompano con la borghesia e si oppongano ad essa? Un simile impostazione idealistica ha ben poco a che vedere con il marxismo che non parte da quello che gli individui pensano di sé stessi e da quello che auspicano, bensì dalle condizioni in cui sono posti e dai mutamenti che possono intervenire in queste condizioni. […] Certo, il fascismo non minaccia in nessun modo il regime borghese in difesa del quale opera la socialdemocrazia. Ma il fascismo minaccia la funzione che la socialdemocrazia assolve nel regime borghese e gli utili che ne ricava. Se gli staliniani dimenticano questo aspetto della questione, la socialdemocrazia non perde di vista per un solo istante questo mortale pericolo che la minaccia – minaccia non la borghesia, ma direttamente la socialdemocrazia – in caso di vittoria del fascismo»(ibid.).
Senza vergogna, poi, al VII Congresso dell’Internazionale Comunista del 1935, con una giravolta di 180°, divenuta indifendibile la teoria del socialfascismo e del Terzo Periodo, lo stalinismo tirò fuori dal cilindro quella altrettanto tragica dei “fronti popolari” (di cui anche Italia sarà vittima alla caduta del regime), con l’unità antifascista non confinata ai partiti operai e piccolo-borghesi progressisti (come nel fronte unico di lotta di Lenin e Trotsky) ma estesa anche ai partiti della grande borghesia liberale, finanche ai monarchici. Inoltre, quella che era un’unità d’azione nel campo della lotta al fascismo divenne il progetto di un blocco politico stabile della classe operaia con la parte della borghesia liberale ritenuta più illuminata (posizione politica vaneggiata ancora oggi dai residui bellici dello stalinismo). I borghesi temono certamente il flagello fascista, ma temono di più il potere operaio. Per conciliare queste due paure, la loro fantasia ha concepito una soluzione: i fronti popolari, che abbaiano contro il fascismo, ma si guardano bene dal prendere qualsiasi radicale misura atta ad estirparne le radici reali.
Per un 25 aprile di classe
Vista da un punto di vista di classe, l’unico che ci può realmente interessare, la lotta contro il fascismo doveva quindi essere in primo luogo la lotta contro il capitalismo, che aveva ora assunto la sua forma più brutale e trasparente. Esemplificando il concetto, doveva essere una lotta per la rivoluzione socialista. La Resistenza invece virò bruscamente verso l’unità nazionale, per la salvezza della patria, cioè la salvezza della borghesia e del suo potere. Il Partito Comunista d’Italia stalinizzato svolse una parte fondamentale in questo tradimento, i cui strascichi pesano enormemente ancora oggi. La maggioranza dei ricordi celebrativi che se ne fanno, puntano molto su questa narrazione, che al fascismo contrappone democrazia e Costituzione. Lo Stato “democratico” che gli successe fu invece ancora completamente infettato dal morbo fascista, così come lo Stato “democratico” che l’aveva preceduto conteneva già in nuce lo stesso morbo. Gli alti gradi dell’amministrazione, dell’esercito, della polizia, della magistratura, rimasero interamente nelle mani di complici del regime, oltre che nelle mani di quegli stessi che avevano consegnato al fascismo le chiavi del potere. Lo Stato borghese bisognerebbe svuotarlo e spezzarlo, sic et simpliciter. Il 25 aprile segna un momento topico all’interno di un articolato processo rivoluzionario che avrebbe certamente condotto l’Italia verso una prospettiva socialista se la direzione politica del proletariato, innanzitutto il Partito Comunista Italiano, fosse stata all’altezza dei suoi compiti storici. Ma ciò non avvenne perché il Pci, divenuto durante gli anni bui della controrivoluzione stalinista, una sorta di ambasciata di Mosca in Italia, non poteva e non aveva nessuna intenzione di tentare “l’assalto al cielo”. La Terza Internazionale stalinizzata, passata da Comintern a Cominform, svolse il ruolo oggettivo di baluardo della controrivoluzione a livello mondiale. L’Italia doveva rientrare tra i paesi sotto la protezione strategica degli Stati Uniti d’America, quindi il Pci, sordo alla spinta delle classi popolari, doveva portare avanti una politica di collaborazione di classe con lo stesso nemico che per due decenni aveva alimentato, finanziato e armato le squadre fasciste e poi il regime stesso. Con la “svolta di Salerno” Togliatti impose la smobilitazione delle fabbriche occupate, il disarmo delle formazioni spontanee di combattenti comunisti non inquadrate nel Pci, la pacificazione nazionale che avrebbe portato alla vergognosa amnistia per tutti i fascisti. Il 25 aprile rappresenta da un lato la manifestazione dello straordinario coraggio e l’incredibile senso di abnegazione della nostra classe, dall’altro il fallimento criminale dello stalinismo italiano e mondiale. Decadenza capitalista, regime economico dei monopoli, unità nazionale, impoverimento del ceto medio e impossibilità per i lavoratori di migliorare le proprie condizioni di vita all’interno dell’attuale sistema in crisi, sono concetti che risuonano tutt’oggi nel dibattito politico ed economico, donando a tali discussioni un’attualità che le spinge ben oltre la semplice commemorazione storica. Il fascismo non può essere efficacemente combattuto e definitivamente sconfitto se non attraverso la rivoluzione proletaria. Qualsiasi “antifascismo” che la rifiuti non è che un vaneggiamento e, cosa ancor più grave, un imbroglio.
La Redazione