Come resistere e vincere nelle carceri israeliane
di Khalida Jarrar
Il seguente testo è un capitolo scritto dalla compagna Khalida Jarrar all’interno del testo “La nostra visione per la liberazione: leader e intellettuali palestinesi attivi parlano” di Ilan Pappé e Ramzy Baroud. Khalida Jarrar, tra i leader di maggior rilevanza del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, organizzazione di sinistra della Resistenza, è stata meno di due settimane fa arrestata per l’ennesima volta dalle forze dell’occupazione sionista, a Ramallah. A lei e a tutte le detenute costrette a patire le torture delle carceri israeliane, la nostra totale solidarietà!
Viva le bandiere palestinesi al corteo contro la violenza di genere del 25 novembre! Viva le bandiere palestinesi in ogni corteo per la liberazione della donna!
CREARE SPERANZA DALLA DISPERAZIONE: COME RESISTERE E VINCERE NELLE CARCERI ISRAELIANE
Il carcere non è solo un luogo fatto di alte mura, filo spinato e piccole celle soffocanti con pesanti porte di ferro. Non è solo un luogo definito dal suono sferragliante del metallo; anzi, lo stridore o lo sbattere del metallo è il suono più comune che si sente nelle carceri, ogni volta che si chiudono pesanti porte, quando si spostano pesanti letti o armadi, quando si bloccano o si allentano le manette. Anche le bosta, i famigerati veicoli che trasportano i prigionieri da una struttura carceraria all’altra, sono bestie di metallo, all’interno, all’esterno, persino nelle porte e nelle catene incorporate.
No, il carcere è più di tutto questo. È anche storie di persone reali, sofferenze quotidiane e lotte contro le guardie carcerarie e l’amministrazione. La prigione è una posizione morale che deve essere assunta quotidianamente e che non può mai essere lasciata alle spalle.
La prigione è: compagni, sorelle e fratelli che, con il tempo, diventano più vicini a te della tua stessa famiglia. È agonia comune, dolore, tristezza e, nonostante tutto, anche gioia a volte. In carcere, sfidiamo insieme la guardia carceraria violenta, con la stessa volontà e determinazione di spezzarlo per evitare che sia lui a spezzare noi. Questa lotta è incessante e si manifesta in tutte le forme possibili, dal semplice atto di rifiutare i pasti, al confinamento nelle nostre stanze, fino al più faticoso degli sforzi fisici e fisiologici, lo sciopero della fame. Questi sono solo alcuni degli strumenti che i prigionieri palestinesi usano per lottare e guadagnare i loro diritti fondamentali e per conservare un po’ della loro dignità.
Il carcere è l’arte di esplorare le possibilità; è una scuola che ti addestra a risolvere le sfide quotidiane usando i mezzi più semplici e creativi, che si tratti della preparazione del cibo, del rammendo di vecchi abiti o della ricerca di un terreno comune per poter resistere e sopravvivere tutti insieme.
In carcere dobbiamo prendere coscienza del tempo, perché se non lo facciamo, si fermerà. Quindi, facciamo tutto il possibile per combattere la routine, per cogliere ogni occasione di festeggiare e commemorare ogni momento importante della nostra vita, personale o collettiva.
Le storie individuali dei prigionieri palestinesi sono una rappresentazione di qualcosa di molto più grande, poiché tutti i palestinesi vivono quotidianamente la prigionia nelle sue varie forme. Inoltre, il racconto di un prigioniero palestinese non è un’esperienza fugace che riguarda solo la persona che l’ha vissuta, ma un evento che scuote nel profondo la prigioniera, i suoi compagni, la sua famiglia e l’intera comunità. Ogni storia rappresenta un’interpretazione creativa di una vita vissuta, nonostante le difficoltà, da una persona il cui cuore batte con l’amore per la sua patria e il desiderio della sua preziosa libertà.
Ogni singolo racconto è anche un momento determinante, un conflitto tra la volontà della guardia carceraria e di tutto ciò che rappresenta, e la volontà dei prigionieri e di ciò che rappresentano come collettività, capace, quando è unita, di superare incredibili difficoltà. La sfida dei prigionieri palestinesi è anche un riflesso della sfida collettiva e dello spirito di ribellione del popolo palestinese, che rifiuta di essere schiavizzato nella propria terra ed è determinato a riconquistare la libertà, con la stessa volontà e lo stesso vigore di tutte le nazioni trionfanti, dopo la colonizzazione.
Le sofferenze e le violazioni dei diritti umani subite dai prigionieri palestinesi, che sono contrarie al diritto internazionale e umanitario, sono solo un lato della storia della prigione. L’altro lato può essere veramente compreso e trasmesso solo da coloro che hanno vissuto queste esperienze strazianti. Molto spesso, nella storia dei prigionieri palestinesi manca la traiettoria umana ispiratrice di uomini e donne palestinesi che hanno vissuto momenti determinanti, con tutti i loro dettagli dolorosi e le loro sfide.
Solo approfondendo la narrazione dei prigionieri si può iniziare a immaginare cosa si prova a perdere una madre affettuosa mentre si è confinati in una piccola cella, come affrontare una gamba rotta, essere lasciati senza visite familiari per anni, vedersi negato il diritto all’istruzione e affrontare la morte di un compagno.
Se da un lato è importante che comprendiate le sofferenze subite dai prigionieri, come i numerosi atti di tortura fisica, il tormento psicologico e l’isolamento prolungato, dall’altro dovete anche rendervi conto del potere della volontà umana, quando uomini e donne decidono di reagire, di reclamare i loro diritti naturali e di abbracciare la loro umanità.
La resistenza può assumere molte forme. Durante i vari periodi di detenzione come prigioniera politica nelle carceri israeliane, anch’io ho preso parte alle varie forme di resistenza all’interno delle mura del carcere. Per me l’istruzione delle detenute palestinesi è diventata una priorità urgente.
Le donne prigioniere nelle carceri israeliane sono trattate in modo diverso dagli uomini, non solo per la natura delle violazioni commesse contro di loro, ma anche per il grado di isolamento. Poiché le detenute sono molto meno numerose degli uomini, è più facile per le autorità carcerarie israeliane isolarle completamente dal resto del mondo. Inoltre, sono poche le detenute laureate; il livello di istruzione di queste donne è allarmantemente basso.
Ero già a conoscenza di questi fatti quando sono stata detenuta da Israele nel 2015, trascorrendo la maggior parte della mia detenzione nel carcere di HaSharon. Ho quindi deciso di concentrarmi sulla questione dell’istruzione per le donne a cui è stata negata la possibilità di terminare gli studi, sia da bambine che da persone a cui è stato negato tale diritto a causa di condizioni sociali difficili. L’idea si è subito affacciata nella mia mente: se avessi potuto aiutare solo poche donne a conseguire il diploma di scuola superiore, avrei fatto un buon uso del mio tempo di detenzione. Questi diplomi avrebbero permesso loro di conseguire una laurea non appena fossero state in grado di farlo e, infine, di raggiungere un livello di indipendenza economica. Soprattutto, grazie a una solida istruzione, queste donne potrebbero contribuire ancora di più all’emancipazione delle comunità palestinesi.
Tuttavia, tutti i prigionieri, e in particolare le donne, devono affrontare numerosi ostacoli. Le autorità carcerarie israeliane pongono numerose restrizioni ai prigionieri che vogliono perseguire un’istruzione formale. Anche quando l’Israel Prison Service (IPS) accetta, in linea di principio, di concedere tale diritto, si assicura che manchino tutte le condizioni pratiche necessarie per facilitare il lavoro, compresa la disponibilità di aule, lavagne, materiale scolastico e insegnanti qualificati.
Quest’ultimo ostacolo, tuttavia, è stato superato dal fatto che ho conseguito un master, che mi qualifica dal punto di vista del Ministero dell’Istruzione palestinese per prestare servizio come insegnante e supervisionare gli esami finali di scuola superiore, noti come Tawjihi. Il solo vedere l’eccitazione sui volti delle ragazze quando ho proposto loro l’idea mi ha ispirato ad assumere l’arduo compito, la prima iniziativa di questo tipo nella storia delle donne palestinesi prigioniere nelle carceri israeliane.
Ho iniziato contattando il Ministero dell’Istruzione per comprendere appieno le loro regole e aspettative, e come si sarebbero applicate alle detenute che vogliono studiare per gli esami finali. La mia prima coorte di studenti era composta da cinque donne, che hanno accettato la sfida con grande entusiasmo.
In quella fase iniziale, l’amministrazione carceraria non era pienamente consapevole della natura della nostra “operazione”, quindi le sue restrizioni erano solo tecniche e amministrative. L’esperienza era infatti nuova per tutti noi, soprattutto per me. Devo ammettere che forse ho esagerato le mie aspettative nel tentativo di garantire un alto grado di professionalità accademica nello svolgimento delle lezioni e dell’esame finale. Volevo solo assicurarmi di non violare in alcun modo i miei principi, perché volevo davvero che le ragazze si guadagnassero i loro certificati e si aspettassero di più da loro stesse.
Avevamo poco materiale scolastico. In effetti, ogni classe doveva condividere un unico libro di testo lasciato da bambini prigionieri palestinesi prima di essere trasferiti dall’IPS in un’altra struttura. Abbiamo copiato a mano i pochi libri di testo; in questo modo, diverse studentesse hanno potuto seguire le lezioni contemporaneamente. Le mie scolari studiavano duramente. Una singola lezione si protraeva a volte per diverse ore, il che significava che ci perdevano volentieri l’unica pausa della giornata, quando potevano uscire dalle loro celle. Avevamo così tante cose da trattare e così poco tempo. Alla fine, cinque studentesse hanno sostenuto l’esame, i cui risultati sono stati inviati al Ministero dell’Istruzione per essere confermati. Settimane dopo, i risultati sono arrivati. Due delle studentesse sono state promosse.
È stato un momento straordinario. La notizia che due studentesse avevano ottenuto i loro certificati mentre erano in carcere si è diffusa rapidamente tra tutti i detenuti, le loro famiglie e le organizzazioni che sostengono i diritti dei detenuti. Le ragazze hanno festeggiato la notizia e tutti i loro compagni si sono sentiti veramente felici per loro. In poco tempo ci siamo mobilitati di nuovo, preparandoci a produrre un altro gruppo di diplomati. Tuttavia, più l’attenzione dei media si estendeva riguardo i nostri risultati, più le autorità carcerarie israeliane si preoccupavano. Non mi sorprese affatto che l’IPS decidesse di rendere difficile la stessa esperienza al secondo gruppo, anch’esso composto da cinque studentesse.
È stata una vera e propria battaglia, ma avevamo tutte le intenzioni di combattere fino in fondo, a prescindere dalle pressioni. L’amministrazione del carcere mi informò ufficialmente che non potevo più insegnare ai detenuti. Mi hanno molestato ripetutamente, minacciando di mandarmi in isolamento. Ma io conosco bene il diritto internazionale e ho affrontato più volte gli israeliani dicendo loro che comprendevo i diritti dei prigionieri e non avevo intenzione di tirarmi indietro. Nonostante tutto, sono riuscita a insegnare al secondo gruppo di ragazze, preparando io stessa gli esami, in coordinamento con il Ministero dell’Istruzione. Questa volta, tutte e cinque le studentesse che hanno sostenuto l’esame sono state promosse. È stato un grande trionfo.
Dopo i risultati ottenuti, mi sono resa conto che era necessario istituzionalizzare l’esperienza educativa per le detenute, e non legarla a me o a una singola persona in generale. Per avere successo a lungo termine, doveva esserci uno sforzo collettivo, una missione che doveva essere sostenuta da ogni gruppo di donne detenute, per gli anni a venire. Ho puntato molto sulla formazione di detenute qualificate, coinvolgendole nell’insegnamento e facendole familiarizzare con il lavoro amministrativo richiesto dal Ministero dell’Istruzione. Ho creato l’apparato per garantire una transizione graduale al terzo gruppo di diplomate, in previsione della mia imminente liberazione.
Sono stata liberata nel giugno 2016. Anche se sono tornata alla mia vita regolare e al mio lavoro professionale, non ho mai smesso di pensare ai miei compagni in carcere, alle loro lotte e sfide quotidiane, soprattutto a coloro che desiderano ottenere l’istruzione di cui hanno bisogno e che meritano. Sono stata entusiasta quando ho saputo che due detenute hanno sostenuto gli esami finali dopo la mia partenza e si sono laureate con successo. Mi sono sentita felice come quando sono stata liberata e mi sono riunita alla famiglia. Mi sono anche sentita sollevata dal fatto che il sistema che avevo messo in atto prima del mio rilascio stava funzionando. Questo mi ha dato molta speranza per il futuro.
Nel luglio 2017, l’esercito israeliano mi ha arrestato di nuovo, questa volta per 20 mesi. Sono tornata nella stessa prigione di HaSharon. C’erano molte più detenute di prima. Immediatamente, con l’aiuto di altre detenute qualificate, abbiamo iniziato a preparare il quarto gruppo per il diploma. Questa volta, nove detenute stavano studiando per l’esame. C’erano più insegnanti e volontari. Il carcere era improvvisamente sbocciato, trasformandosi in un luogo di apprendimento e di responsabilizzazione.
L’amministrazione del carcere impazzì! Mi accusarono di istigazione e iniziarono una serie di misure ritorsive per bloccare l’intero processo scolastico. Abbiamo accettato la sfida. Quando hanno chiuso la nostra classe, abbiamo scioperato. Quando ci hanno confiscato penne e matite, abbiamo usato i pastelli. Quando hanno portato via la lavagna, abbiamo sganciato una finestra e ci abbiamo scritto sopra. La portavamo di nascosto da una stanza all’altra, durante le ore che avevamo destinato all’apprendimento. Le guardie carcerarie hanno provato tutti i trucchi del mestiere per impedirci di esercitare il nostro diritto all’istruzione. Per dimostrare la nostra determinazione a sconfiggere le autorità carcerarie, chiamammo il quarto gruppo “La classe della sfida”. Alla fine, la nostra volontà si è dimostrata più forte della loro ingiustizia. Abbiamo completato l’intero processo. Tutte le ragazze che hanno sostenuto l’esame finale sono state promosse a pieni voti.
Non posso descrivervi a parole come ci siamo sentite in quei giorni. È stata una grande vittoria. Abbiamo decorato le pareti della prigione e abbiamo festeggiato. Eravamo tutte felici, sorridenti ed esultanti per quello che eravamo riuscite ad ottenere insieme, quando ci siamo unite contro le regole ingiuste di Israele e della sua amministrazione carceraria. La notizia si è diffusa oltre le mura del carcere e le famiglie delle diplomate hanno festeggiato in tutta la Palestina. Il quinto gruppo è stato il coronamento di questo risultato collettivo. È stata la dolce ricompensa dopo mesi di lotta e difficoltà che abbiamo sopportato, insistendo sul nostro diritto all’istruzione. Altre sette studentesse stanno ora studiando per l’esame finale, nella speranza di unirsi alle altre 18 diplomate che hanno ottenuto i loro certificati dalla prima esperienza iniziata nel 2015.
Le aspirazioni delle detenute si sono evolute, poiché si sono sentite veramente capaci e responsabilizzate dall’istruzione ricevuta, soprattutto perché hanno sopportato così tanto per ottenere quello che dovrebbe essere un diritto umano fondamentale per tutti. Chi ha ottenuto il certificato Tawjihi è pronto a passare a un livello di istruzione superiore. Tuttavia, poiché il Ministero dell’Istruzione non è ancora pronto per questo passo, i prigionieri stanno creando alternative temporanee.
Poiché ho conseguito un Master in Democrazia e Diritti Umani e ho anche una lunga esperienza in questo campo grazie al mio lavoro con Addameer e il PLC, tra le altre istituzioni, ho offerto ai miei studenti un corso di formazione in Diritto Internazionale e Umanitario. Per tenere il corso, sono riuscito a portare in carcere alcuni dei testi più importanti e rilevanti relativi ai trattati internazionali sui diritti umani, tra cui la traduzione in arabo di tutte e quattro le Convenzioni di Ginevra. Alcuni di questi documenti sono stati portati dalla Croce Rossa, altri dai familiari che sono venuti a trovarmi in carcere.
Quarantanove detenute hanno partecipato al corso, che è stato suddiviso in diversi periodi, ciascuno di due mesi. Alla fine del corso, le partecipanti hanno ricevuto i certificati per aver completato 36 ore di formazione in diritto internazionale e umanitario, i cui risultati sono stati ufficializzati da diversi ministeri palestinesi. Mentre noi festeggiavamo in carcere, all’esterno si è tenuta una grande cerimonia sponsorizzata dal Ministero degli Affari dei Prigionieri, alla quale hanno partecipato le famiglie e alcuni dei prigionieri liberati, al centro di una grande festa.
Alla fine, abbiamo fatto di più che creare speranza dalla disperazione. Abbiamo anche evoluto la nostra narrazione, il modo in cui percepiamo noi stessi, la prigione e le guardie carcerarie. Abbiamo sconfitto ogni persistente senso di inferiorità e trasformato le mura della prigione in un’opportunità. Quando ho visto i bei sorrisi sui volti delle mie studentesse che hanno completato la loro istruzione superiore in carcere, ho sentito che la mia missione era stata compiuta.
La speranza in carcere è come un fiore che cresce da una pietra. Per noi palestinesi, l’istruzione è la nostra arma più grande. Con essa, saremo sempre vittoriosi.
LINK AL TESTO ORIGINALE:
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Come resistere e vincere nelle carceri israeliane
di Khalida Jarrar
Il seguente testo è un capitolo scritto dalla compagna Khalida Jarrar all’interno del testo “La nostra visione per la liberazione: leader e intellettuali palestinesi attivi parlano” di Ilan Pappé e Ramzy Baroud. Khalida Jarrar, tra i leader di maggior rilevanza del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, organizzazione di sinistra della Resistenza, è stata meno di due settimane fa arrestata per l’ennesima volta dalle forze dell’occupazione sionista, a Ramallah. A lei e a tutte le detenute costrette a patire le torture delle carceri israeliane, la nostra totale solidarietà!
Viva le bandiere palestinesi al corteo contro la violenza di genere del 25 novembre! Viva le bandiere palestinesi in ogni corteo per la liberazione della donna!
CREARE SPERANZA DALLA DISPERAZIONE: COME RESISTERE E VINCERE NELLE CARCERI ISRAELIANE
Il carcere non è solo un luogo fatto di alte mura, filo spinato e piccole celle soffocanti con pesanti porte di ferro. Non è solo un luogo definito dal suono sferragliante del metallo; anzi, lo stridore o lo sbattere del metallo è il suono più comune che si sente nelle carceri, ogni volta che si chiudono pesanti porte, quando si spostano pesanti letti o armadi, quando si bloccano o si allentano le manette. Anche le bosta, i famigerati veicoli che trasportano i prigionieri da una struttura carceraria all’altra, sono bestie di metallo, all’interno, all’esterno, persino nelle porte e nelle catene incorporate.
No, il carcere è più di tutto questo. È anche storie di persone reali, sofferenze quotidiane e lotte contro le guardie carcerarie e l’amministrazione. La prigione è una posizione morale che deve essere assunta quotidianamente e che non può mai essere lasciata alle spalle.
La prigione è: compagni, sorelle e fratelli che, con il tempo, diventano più vicini a te della tua stessa famiglia. È agonia comune, dolore, tristezza e, nonostante tutto, anche gioia a volte. In carcere, sfidiamo insieme la guardia carceraria violenta, con la stessa volontà e determinazione di spezzarlo per evitare che sia lui a spezzare noi. Questa lotta è incessante e si manifesta in tutte le forme possibili, dal semplice atto di rifiutare i pasti, al confinamento nelle nostre stanze, fino al più faticoso degli sforzi fisici e fisiologici, lo sciopero della fame. Questi sono solo alcuni degli strumenti che i prigionieri palestinesi usano per lottare e guadagnare i loro diritti fondamentali e per conservare un po’ della loro dignità.
Il carcere è l’arte di esplorare le possibilità; è una scuola che ti addestra a risolvere le sfide quotidiane usando i mezzi più semplici e creativi, che si tratti della preparazione del cibo, del rammendo di vecchi abiti o della ricerca di un terreno comune per poter resistere e sopravvivere tutti insieme.
In carcere dobbiamo prendere coscienza del tempo, perché se non lo facciamo, si fermerà. Quindi, facciamo tutto il possibile per combattere la routine, per cogliere ogni occasione di festeggiare e commemorare ogni momento importante della nostra vita, personale o collettiva.
Le storie individuali dei prigionieri palestinesi sono una rappresentazione di qualcosa di molto più grande, poiché tutti i palestinesi vivono quotidianamente la prigionia nelle sue varie forme. Inoltre, il racconto di un prigioniero palestinese non è un’esperienza fugace che riguarda solo la persona che l’ha vissuta, ma un evento che scuote nel profondo la prigioniera, i suoi compagni, la sua famiglia e l’intera comunità. Ogni storia rappresenta un’interpretazione creativa di una vita vissuta, nonostante le difficoltà, da una persona il cui cuore batte con l’amore per la sua patria e il desiderio della sua preziosa libertà.
Ogni singolo racconto è anche un momento determinante, un conflitto tra la volontà della guardia carceraria e di tutto ciò che rappresenta, e la volontà dei prigionieri e di ciò che rappresentano come collettività, capace, quando è unita, di superare incredibili difficoltà. La sfida dei prigionieri palestinesi è anche un riflesso della sfida collettiva e dello spirito di ribellione del popolo palestinese, che rifiuta di essere schiavizzato nella propria terra ed è determinato a riconquistare la libertà, con la stessa volontà e lo stesso vigore di tutte le nazioni trionfanti, dopo la colonizzazione.
Le sofferenze e le violazioni dei diritti umani subite dai prigionieri palestinesi, che sono contrarie al diritto internazionale e umanitario, sono solo un lato della storia della prigione. L’altro lato può essere veramente compreso e trasmesso solo da coloro che hanno vissuto queste esperienze strazianti. Molto spesso, nella storia dei prigionieri palestinesi manca la traiettoria umana ispiratrice di uomini e donne palestinesi che hanno vissuto momenti determinanti, con tutti i loro dettagli dolorosi e le loro sfide.
Solo approfondendo la narrazione dei prigionieri si può iniziare a immaginare cosa si prova a perdere una madre affettuosa mentre si è confinati in una piccola cella, come affrontare una gamba rotta, essere lasciati senza visite familiari per anni, vedersi negato il diritto all’istruzione e affrontare la morte di un compagno.
Se da un lato è importante che comprendiate le sofferenze subite dai prigionieri, come i numerosi atti di tortura fisica, il tormento psicologico e l’isolamento prolungato, dall’altro dovete anche rendervi conto del potere della volontà umana, quando uomini e donne decidono di reagire, di reclamare i loro diritti naturali e di abbracciare la loro umanità.
La resistenza può assumere molte forme. Durante i vari periodi di detenzione come prigioniera politica nelle carceri israeliane, anch’io ho preso parte alle varie forme di resistenza all’interno delle mura del carcere. Per me l’istruzione delle detenute palestinesi è diventata una priorità urgente.
Le donne prigioniere nelle carceri israeliane sono trattate in modo diverso dagli uomini, non solo per la natura delle violazioni commesse contro di loro, ma anche per il grado di isolamento. Poiché le detenute sono molto meno numerose degli uomini, è più facile per le autorità carcerarie israeliane isolarle completamente dal resto del mondo. Inoltre, sono poche le detenute laureate; il livello di istruzione di queste donne è allarmantemente basso.
Ero già a conoscenza di questi fatti quando sono stata detenuta da Israele nel 2015, trascorrendo la maggior parte della mia detenzione nel carcere di HaSharon. Ho quindi deciso di concentrarmi sulla questione dell’istruzione per le donne a cui è stata negata la possibilità di terminare gli studi, sia da bambine che da persone a cui è stato negato tale diritto a causa di condizioni sociali difficili. L’idea si è subito affacciata nella mia mente: se avessi potuto aiutare solo poche donne a conseguire il diploma di scuola superiore, avrei fatto un buon uso del mio tempo di detenzione. Questi diplomi avrebbero permesso loro di conseguire una laurea non appena fossero state in grado di farlo e, infine, di raggiungere un livello di indipendenza economica. Soprattutto, grazie a una solida istruzione, queste donne potrebbero contribuire ancora di più all’emancipazione delle comunità palestinesi.
Tuttavia, tutti i prigionieri, e in particolare le donne, devono affrontare numerosi ostacoli. Le autorità carcerarie israeliane pongono numerose restrizioni ai prigionieri che vogliono perseguire un’istruzione formale. Anche quando l’Israel Prison Service (IPS) accetta, in linea di principio, di concedere tale diritto, si assicura che manchino tutte le condizioni pratiche necessarie per facilitare il lavoro, compresa la disponibilità di aule, lavagne, materiale scolastico e insegnanti qualificati.
Quest’ultimo ostacolo, tuttavia, è stato superato dal fatto che ho conseguito un master, che mi qualifica dal punto di vista del Ministero dell’Istruzione palestinese per prestare servizio come insegnante e supervisionare gli esami finali di scuola superiore, noti come Tawjihi. Il solo vedere l’eccitazione sui volti delle ragazze quando ho proposto loro l’idea mi ha ispirato ad assumere l’arduo compito, la prima iniziativa di questo tipo nella storia delle donne palestinesi prigioniere nelle carceri israeliane.
Ho iniziato contattando il Ministero dell’Istruzione per comprendere appieno le loro regole e aspettative, e come si sarebbero applicate alle detenute che vogliono studiare per gli esami finali. La mia prima coorte di studenti era composta da cinque donne, che hanno accettato la sfida con grande entusiasmo.
In quella fase iniziale, l’amministrazione carceraria non era pienamente consapevole della natura della nostra “operazione”, quindi le sue restrizioni erano solo tecniche e amministrative. L’esperienza era infatti nuova per tutti noi, soprattutto per me. Devo ammettere che forse ho esagerato le mie aspettative nel tentativo di garantire un alto grado di professionalità accademica nello svolgimento delle lezioni e dell’esame finale. Volevo solo assicurarmi di non violare in alcun modo i miei principi, perché volevo davvero che le ragazze si guadagnassero i loro certificati e si aspettassero di più da loro stesse.
Avevamo poco materiale scolastico. In effetti, ogni classe doveva condividere un unico libro di testo lasciato da bambini prigionieri palestinesi prima di essere trasferiti dall’IPS in un’altra struttura. Abbiamo copiato a mano i pochi libri di testo; in questo modo, diverse studentesse hanno potuto seguire le lezioni contemporaneamente. Le mie scolari studiavano duramente. Una singola lezione si protraeva a volte per diverse ore, il che significava che ci perdevano volentieri l’unica pausa della giornata, quando potevano uscire dalle loro celle. Avevamo così tante cose da trattare e così poco tempo. Alla fine, cinque studentesse hanno sostenuto l’esame, i cui risultati sono stati inviati al Ministero dell’Istruzione per essere confermati. Settimane dopo, i risultati sono arrivati. Due delle studentesse sono state promosse.
È stato un momento straordinario. La notizia che due studentesse avevano ottenuto i loro certificati mentre erano in carcere si è diffusa rapidamente tra tutti i detenuti, le loro famiglie e le organizzazioni che sostengono i diritti dei detenuti. Le ragazze hanno festeggiato la notizia e tutti i loro compagni si sono sentiti veramente felici per loro. In poco tempo ci siamo mobilitati di nuovo, preparandoci a produrre un altro gruppo di diplomati. Tuttavia, più l’attenzione dei media si estendeva riguardo i nostri risultati, più le autorità carcerarie israeliane si preoccupavano. Non mi sorprese affatto che l’IPS decidesse di rendere difficile la stessa esperienza al secondo gruppo, anch’esso composto da cinque studentesse.
È stata una vera e propria battaglia, ma avevamo tutte le intenzioni di combattere fino in fondo, a prescindere dalle pressioni. L’amministrazione del carcere mi informò ufficialmente che non potevo più insegnare ai detenuti. Mi hanno molestato ripetutamente, minacciando di mandarmi in isolamento. Ma io conosco bene il diritto internazionale e ho affrontato più volte gli israeliani dicendo loro che comprendevo i diritti dei prigionieri e non avevo intenzione di tirarmi indietro. Nonostante tutto, sono riuscita a insegnare al secondo gruppo di ragazze, preparando io stessa gli esami, in coordinamento con il Ministero dell’Istruzione. Questa volta, tutte e cinque le studentesse che hanno sostenuto l’esame sono state promosse. È stato un grande trionfo.
Dopo i risultati ottenuti, mi sono resa conto che era necessario istituzionalizzare l’esperienza educativa per le detenute, e non legarla a me o a una singola persona in generale. Per avere successo a lungo termine, doveva esserci uno sforzo collettivo, una missione che doveva essere sostenuta da ogni gruppo di donne detenute, per gli anni a venire. Ho puntato molto sulla formazione di detenute qualificate, coinvolgendole nell’insegnamento e facendole familiarizzare con il lavoro amministrativo richiesto dal Ministero dell’Istruzione. Ho creato l’apparato per garantire una transizione graduale al terzo gruppo di diplomate, in previsione della mia imminente liberazione.
Sono stata liberata nel giugno 2016. Anche se sono tornata alla mia vita regolare e al mio lavoro professionale, non ho mai smesso di pensare ai miei compagni in carcere, alle loro lotte e sfide quotidiane, soprattutto a coloro che desiderano ottenere l’istruzione di cui hanno bisogno e che meritano. Sono stata entusiasta quando ho saputo che due detenute hanno sostenuto gli esami finali dopo la mia partenza e si sono laureate con successo. Mi sono sentita felice come quando sono stata liberata e mi sono riunita alla famiglia. Mi sono anche sentita sollevata dal fatto che il sistema che avevo messo in atto prima del mio rilascio stava funzionando. Questo mi ha dato molta speranza per il futuro.
Nel luglio 2017, l’esercito israeliano mi ha arrestato di nuovo, questa volta per 20 mesi. Sono tornata nella stessa prigione di HaSharon. C’erano molte più detenute di prima. Immediatamente, con l’aiuto di altre detenute qualificate, abbiamo iniziato a preparare il quarto gruppo per il diploma. Questa volta, nove detenute stavano studiando per l’esame. C’erano più insegnanti e volontari. Il carcere era improvvisamente sbocciato, trasformandosi in un luogo di apprendimento e di responsabilizzazione.
L’amministrazione del carcere impazzì! Mi accusarono di istigazione e iniziarono una serie di misure ritorsive per bloccare l’intero processo scolastico. Abbiamo accettato la sfida. Quando hanno chiuso la nostra classe, abbiamo scioperato. Quando ci hanno confiscato penne e matite, abbiamo usato i pastelli. Quando hanno portato via la lavagna, abbiamo sganciato una finestra e ci abbiamo scritto sopra. La portavamo di nascosto da una stanza all’altra, durante le ore che avevamo destinato all’apprendimento. Le guardie carcerarie hanno provato tutti i trucchi del mestiere per impedirci di esercitare il nostro diritto all’istruzione. Per dimostrare la nostra determinazione a sconfiggere le autorità carcerarie, chiamammo il quarto gruppo “La classe della sfida”. Alla fine, la nostra volontà si è dimostrata più forte della loro ingiustizia. Abbiamo completato l’intero processo. Tutte le ragazze che hanno sostenuto l’esame finale sono state promosse a pieni voti.
Non posso descrivervi a parole come ci siamo sentite in quei giorni. È stata una grande vittoria. Abbiamo decorato le pareti della prigione e abbiamo festeggiato. Eravamo tutte felici, sorridenti ed esultanti per quello che eravamo riuscite ad ottenere insieme, quando ci siamo unite contro le regole ingiuste di Israele e della sua amministrazione carceraria. La notizia si è diffusa oltre le mura del carcere e le famiglie delle diplomate hanno festeggiato in tutta la Palestina. Il quinto gruppo è stato il coronamento di questo risultato collettivo. È stata la dolce ricompensa dopo mesi di lotta e difficoltà che abbiamo sopportato, insistendo sul nostro diritto all’istruzione. Altre sette studentesse stanno ora studiando per l’esame finale, nella speranza di unirsi alle altre 18 diplomate che hanno ottenuto i loro certificati dalla prima esperienza iniziata nel 2015.
Le aspirazioni delle detenute si sono evolute, poiché si sono sentite veramente capaci e responsabilizzate dall’istruzione ricevuta, soprattutto perché hanno sopportato così tanto per ottenere quello che dovrebbe essere un diritto umano fondamentale per tutti. Chi ha ottenuto il certificato Tawjihi è pronto a passare a un livello di istruzione superiore. Tuttavia, poiché il Ministero dell’Istruzione non è ancora pronto per questo passo, i prigionieri stanno creando alternative temporanee.
Poiché ho conseguito un Master in Democrazia e Diritti Umani e ho anche una lunga esperienza in questo campo grazie al mio lavoro con Addameer e il PLC, tra le altre istituzioni, ho offerto ai miei studenti un corso di formazione in Diritto Internazionale e Umanitario. Per tenere il corso, sono riuscito a portare in carcere alcuni dei testi più importanti e rilevanti relativi ai trattati internazionali sui diritti umani, tra cui la traduzione in arabo di tutte e quattro le Convenzioni di Ginevra. Alcuni di questi documenti sono stati portati dalla Croce Rossa, altri dai familiari che sono venuti a trovarmi in carcere.
Quarantanove detenute hanno partecipato al corso, che è stato suddiviso in diversi periodi, ciascuno di due mesi. Alla fine del corso, le partecipanti hanno ricevuto i certificati per aver completato 36 ore di formazione in diritto internazionale e umanitario, i cui risultati sono stati ufficializzati da diversi ministeri palestinesi. Mentre noi festeggiavamo in carcere, all’esterno si è tenuta una grande cerimonia sponsorizzata dal Ministero degli Affari dei Prigionieri, alla quale hanno partecipato le famiglie e alcuni dei prigionieri liberati, al centro di una grande festa.
Alla fine, abbiamo fatto di più che creare speranza dalla disperazione. Abbiamo anche evoluto la nostra narrazione, il modo in cui percepiamo noi stessi, la prigione e le guardie carcerarie. Abbiamo sconfitto ogni persistente senso di inferiorità e trasformato le mura della prigione in un’opportunità. Quando ho visto i bei sorrisi sui volti delle mie studentesse che hanno completato la loro istruzione superiore in carcere, ho sentito che la mia missione era stata compiuta.
La speranza in carcere è come un fiore che cresce da una pietra. Per noi palestinesi, l’istruzione è la nostra arma più grande. Con essa, saremo sempre vittoriosi.
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