CILE, 11 SETTEMBRE 1973. LA TRAGEDIA DEL RIFORMISMO
In occasione del 50esimo anniversario del golpe militare in Cile, pubblichiamo due importanti testi relativi a quei giorni e ai mesi immediatamente precedenti, quelli del governo Allende. Un governo di fronte popolare (cioè di alleanza tra proletariato e borghesia) che ha portato ad una delle più reazionarie dittature del secolo scorso, quella del generale Pinochet. Al governo di Unidad Popular guidato da Salvador Allende guarda ancora oggi buona parte della sinistra riformista, non rendendosi conto che, al di là del volenteroso impegno dei suoi rappresentanti, quell’esperienza non poteva che finire male se non si fosse andati fino in fondo nel cambio di regime (inteso come regime capitalista). Allende (un sincero democratico) e soprattutto il Partito Comunista Cileno non seppero cogliere quella sfida e la storia è poi nota. In particolare, il Partito Comunista Cileno, anch’esso oggi riabilitato da tanti compagni, si rese complice, come quasi tutti i partiti comunisti ufficiali nel mondo, della repressione e di una funzione controrivoluzionaria e di collaborazione di classe che, ad esempio, in Italia ha significato il “Compromesso Storico” con la DC e in Cile la dittatura sanguinaria dei militari di Pinochet.
Il primo degli articoli che presentiamo, a firma del mai troppo compianto compagno Tiziano Bagarolo, compie un’analisi approfondita di quegli eventi, delle responsabilità in campo, dei rapporti tra le classi e della tragedia del golpe cileno.
CILE, 11 SETTEMBRE 1973. LA TRAGEDIA DEL RIFORMISMO
Bilancio storico e politico dell’esperienza di Allende e del governo di Unidad Popular
di Tiziano Bagarolo
La Moneda in fiamme. Fonte: sito web Historia Polìtica della Biblioteca del Congresso Nazionale Cileno, sotto licenza CC Attribution 3.0 Chile
L‘ “altro” 11 settembre
Trent’anni fa (oggi cinquanta) in Cile, l’11 settembre del 1973, un colpo di Stato militare di inaudita violenza, ispirato e preparato con la collaborazione della Cia, rovesciava il presidente eletto Salvador Allende e il legittimo governo dell’Unidad Popular e istaurava una dittatura feroce e totalitaria. Il golpe cominciò all’alba nella città portuale di Valparaiso. Si mosse per prima la Marina, secondo i piani prestabiliti, occupando il porto e la città. Informato di questi sviluppi, Allende si precipitò alla Moneda, il palazzo presidenziale nel centro di Santiago. Si rivolse attraverso la radio ai cileni e in particolare ai lavoratori per invitarli alla vigilanza e alla fermezza. Eppure mostrava ancora di prestar fede alle rassicurazioni appena ricevute da Pinochet che negava il coinvolgimento dell’Esercito nella sedizione. Solo alle 9 meno un quarto, quanto ormai anche la Moneda era circondata dai carri armati dell’Esercito e la Forza aerea si apprestava a bombardare il palazzo, Allende si arrese all’evidenza. A questo punto, con coraggio e dignità, dopo aver rifiutato la proposta dei golpisti di un salvacondotto per lasciare il paese, il compañero Presidente, armi alla mano, si apprestò a resistere e a morire, per dare una lezione morale ai generali “codardi, felloni e traditori”. Se la sorte di Allende si compì in poche ore – e non è molto importante stabilire se si suicidò per non cadere nelle mani dei militari o fu da questi “suicidato” –, annientare l’avanguardia di quella classe operaia che aveva osato troppo, per spezzare la volontà di resistenza delle masse, richiese invece molto più tempo e una barbarie confrontabile a quella del regime nazista o di quello franchista negli anni trenta del secolo scorso. Al riparo di uno stato d’assedio durato quasi cinque anni, in Cile furono uccisi, imprigionati, torturati, fatti scomparire, licenziati, esiliati (e perseguitati anche all’estero dalla famigerata polizia segreta del regime) migliaia e migliaia di quadri e attivisti della sinistra e delle organizzazioni popolari. Si aprirono in Cile 160 campi di concentramento e i primi furono gli stadi. Putroppo i “gorilla” di Santiago e i loro mandanti raggiunsero i loro obiettivi. Il movimento operaio cileno fu rimandato indietro di decenni. Ciò consentì un radicale esperimento “neoliberista” che avrebbe cambiato in profondità il paese e sarebbe diventando un “modello” ben oltre l’America latina. Ancora oggi, a tredici anni dalla fine del regime militare, la cosiddetta “democrazia” cilena è posta sotto la tutela dei militari al punto che non è ancora possibile perseguire e punire i crimini della dittatura. Eppure il governo di Allende era tutto fuorché un governo rivoluzionario. Si era insediato attraverso regolari elezioni e il voto del parlamento. Agiva nel pieno rispetto della costituzione. Cercava costantemente accordi con l’opposizione borghese e in particolare con la Democrazia cristiana. Le principali riforme che stava attuando erano la riforma agraria che era stata deliberata dal precedente governo democristiano e la nazionalizzazione delle miniere del rame in mano alle multinazionali nordamericane che era stata votata dal parlamento all’unanimità! Addirittura, per ulteriore garanzia, Allende aveva fatto entrare nel governo i massimi rappresentanti delle Forze armate alle quali non aveva lesinato autonomia e privilegi. Il governo della Unidad Popular era insomma un governo di collaborazione di classe, non si proponeva di costruire il socialismo espropriando la borghesia e togliendole il potere statale, ma soltanto di modernizzare le strutture economiche e sociali del paese e di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle masse popolari che erano ancora quelle tipiche di un paese arretrato e dipendente del terzo mondo. Il modello politico che l’Unidad Popular cercava di applicare era il “fronte popolare”, ossia un’alleanza delle forze operaie con settori pretesi “avanzati” della classe dominante allo scopo di realizzare un programma di riforme democratiche, non di realizzare il socialismo. Perché allora un tale esito? Perché una repressione così spietata e una dittatura così prolungata? Che cosa è accaduto perché un movimento operaio in grado di conquistare il governo del paese subisse una così improvvisa e tragica disfatta? Rispondere a queste domande significa ricostruire e fare il bilancio di un’esperienza storica di grande significato, e non solo per il movimento operaio cileno o latinoamericano. In Italia, come è noto, la tragedia cilena fornì lo spunto all’allora segretario del Pci per teorizzare il “compromesso storico”, ossia la ricerca di accordo organico con il principale partito della classe dominante (1). Cercheremo di rispondere a questi interrogativi nelle pagine che seguono, ricostruendo l’origine, gli sviluppi e lo sbocco finale della crisi rivoluzionaria vissuta dal Cile tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta del secolo scorso. E cercando, dopo la ricostruzione storica, di fare il bilancio politico e storico della vicenda di Allende e dell’Unidad Popular.
Una crisi che matura da un decennio
L’esperienza dell’Unidad Popular si sviluppa sulla sfondo di eventi sia interni sia internazionali di grande portata. La vittoria di Allende alle presidenziali il 4 settembre del 1970 è lo sbocco di una parabola di ascesa delle lotte e della combattività della classe operaia e degli altri settori sfruttati e oppressi della società cilena che data da almeno un decennio. Questa ascesa, a sua volta, ha come sfondo una situazione internazionale che vede ovunque rimessi in discussione gli equilibri precedenti. Il 1968 è l’anno del Maggio francese, del Tet vietnamita, della “primavera” praghese; il 1969 è quello dell’autunno caldo italiano, del “Cordobazo” argentino e di grandi lotte operaie in Uruguay; il 1971 è l’anno dell’asamblea popular in Bolivia. Più in generale non va dimenticato che gli anni sessanta sono segnati in America latina dall’influenza della rivoluzione cubana. In Cile il decennio si chiude con la crisi dell’ambizioso tentativo riformista borghese rappresentato dal governo del presidente democristiano Eduardo Frei, nato sull’onda della kennediana “Alleanza per il progresso” (2). Ed è proprio da questo fallimento del riformismo borghese che occorre prendere le mosse per comprende il successo di Allende e la crisi rivoluzionaria che si sviluppa in Cile all’inizio degli anni settanta.
Il riformismo borghese della DC e la sua crisi
La DC cilena era nata a metà degli anni cinquanta guardando ai modelli delle DC europee al governo in Italia e in Germania e ispirandosi ideologicamente alla dottrina sociale della chiesa. Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta essa si afferma del panorama politico cileno come una forza ad un tempo riformista e moderata, che si contrappone sia al liberalismo borghese sia al socialismo del movimento operaio, che si dichiara apertamente per la collaborazione di classe in opposizione alla lotta di classe “marxista” e si rivolge non solo ai ceti medi e agli intellettuali ma anche alla base sociale della sinistra, cioè alle masse operaie e ai contadini. Al di là dell’ideologia, la DC si presenta soprattutto come una carta di ricambio per la classe dominante, in sintonia con le promesse dell’“Alleanza per il progresso”, nel momento in cui si delinea l’ascesa delle lotte sociali, la crisi dei vecchi equilibri e l’usura dei tradizionali strumenti di dominio. Le elezioni presidenziali del 1958, che hanno visto prevalere il candidato conservatore Jorge Alessandri per pochi punti percentuali sul candidato delle sinistre Salvador Allende, convince Washigton a puntare a fondo sulla carta democristiana. Così, nel 1964, ad Allende si contrappone il democristiano Eduardo Frei come unico candidato di un fronte borghese che comprende, oltre alla DC, i tradizionali partiti liberale e conservatore. Frei si presenta con lo slogan “Revolución en Libertad” e un programma riformista: riforma agraria, “cilenizzazione” del rame, investimenti per sostenere il mercato interno e le esportazioni, modernizzazione delle strutture statali, ecc. Frei conquista la maggioranza assoluta con il 56% dei voti, ma Allende e il fronte delle sinistre (Frap, Frente de Acción Popular) arrivano al 39% (il 5% va a un terzo candidato, il radicale Duran) (3). Con l’appoggio di Washington, che autorizza prestiti al Cile per varie decine di milioni di dollari (4), Frei attua buona parte del suo progetto. Punto saliente è la nazionalizzazione delle risorse minerarie del paese, ovviamente con congrui indennizzi per le società straniere espropriate. La principale ricchezza del Cile è il rame. Frei intende acquisire subito il 51% del settore, che è quasi per intero in mano alle multinazionali statunitensi Anaconda Copper Mining e Kennecott Copper Co., e in un secondo momento di riscattare il restante 49% (5). Con la riforma agraria, rivendicazione storica in Cile, Frei si propone due obiettivi: uno sociale, disinnescare una fonte di conflitto sociale creando una classe di contadini proprietari socialmente conservatori; e uno economico-produttivo, modernizzare il settore agricolo, estendendo l’utilizzo del suolo, aumentando la produttività, per ampliare il mercato interno quale base per lo sviluppo dell’industria nazionale (6). Nel 1965 il latifondo occupa in Cile quasi i tre quarti della superfice, con milioni di ettari di terreni lasciati incolti (7). La riforma fissa alle proprietà un tetto di 80 ettari di terra di buona qualità o una superfice equivalente (che nel caso di terreni cattivi, ad esempio di montagna, significa che la superficie può quintuplicarsi). Il resto deve essere redistribuito. L’attuazione della riforma agraria provoca a Frei problemi crescenti. L’annuncio ha suscitato grandi aspettative fra i piccoli proprietari e i contadini senza terra, che si tramutano però rapidamente in scontento per la lentezza con cui la riforma procede (8). Nel contempo essa è violentemente contrastata dall’oligarchia latifondista, appoggiata dal neonato Partido Nacional (nato dalla fusione dei partiti conservatore e liberale), che non esita neppure di fronte all’assassinio dei funzionari statali incaricati della riforma. Insomma, più che riuscire a soddisfare i bisogni, le riforme di Frei hanno l’effetto di creare e legittimare le aspettative dei settori sfruttati e di stimolare lo sviluppo dei movimenti, mostrando così indirettamente che i bisogni e la volontà delle masse vanno oltre le compatibilità del riformismo borghese.
L’ascesa delle masse
Tra il 1965 e il 1969 si verifica un crescendo di scioperi contadini e di occupazioni di terre e si sviluppa il processo di sindacalizzazione (9); si rafforzano inoltre i legami fra i braccianti agricoli e gli operai industriali e si realizzano anche episodi di autodifesa delle lotte. A partire dal 1966 si rianima anche il proletariato urbano e delle miniere e si mobilitano i lavoratori del settore pubblico. Si succedono episodi di lotte prolungate e di occupazioni di fabbriche a cui il governo dà una dura risposta repressiva (10). Si sviluppano le lotte dei pobladores (abitanti dei quartieri poveri), in particolare dei senza casa, con una crescente partecipazione delle donne e la nascita di organizzazioni di base. Malgrado i tentativi di divisione sindacale e la dura repressione (11), l’ascesa delle masse non si interrompe e coinvolge sempre nuovi settori. Il progetto di riforma universitaria provoca la nascita di un vivace movimento studentesco (12). Nel contempo, a partire dal 1967, si deteriora il quadro economico, anche per la caduta del prezzo mondiale del rame, la principale voce delle esportazioni cilene. Nel 1969-70 l’inflazione sfiora il 30% e la disoccupazione tocca il 7% a Santiago e supera il 10% nel resto del paese. Gli investimenti esteri e la presenza straniera (in particolare statunitense) continuano comunque a crescere; in particolare in settori industriali dinamici come l’automobile, la mettallurgia, il petrolio, l’elettrico e la cellulosa, sostanzialmente controllati dal capitale estero. La crisi sfocia in una recessione che vede inutilizzato il 30% degli impianti. Cresce inoltre in modo esponenziale il debito estero: da meno di 1,9 miliardi di dollari nel 1964 a quasi 3,9 miliardi di dollari nel 1970. I settori della destra cilena, che pure avevano inizialmente sostenuto Frei, cominciano a voltargli le spalle e a invocare un’alternativa conservatrice dai toni sempre più oltranzisti. Si distingue a questo proposito il principale quotidiano borghese, “El Mercurio”. Non mancano voci che cominciano a chiedere l’intervento dei militari (lo stesso Frei, per altro, ha legittimato il coinvolgimento in politica delle Forze armate istituendo il Consiglio superiore di sicurezza nazionale, composto dal ministro della difesa e dai vertici delle Forze armate). La destra accusa Frei sempre più rumorosamente di “aprire la strada al comunismo” (13). Cade in questo clima, nell’ottobre del 1969, il fallito pronunciamento militare del generale Roberto Viaux e del Regimiento Tacna di Santiago, non distante dalla Moneda. Frei fa apello al popolo, la Centrale unica dei lavoratori (Cut) dichiara lo sciopero generaale. Gli ammutinati di Tacna cedono senza combattere; le loro richieste economiche, comunque, sono accolte; il generale Viaux è semplicemente collocato a riposo. Viene nominato nuovo comandante in capo dell’Esercito il generale René Schneider. Questi sviluppi hanno un riflesso anche a livello elettorale. La DC, che aveva conquistato il 42,5% nelle elezioni legislative del 1965, scende in quelle del 1969 al 31,1%; mentre si verifica un’avanzata dei partiti di sinistra e un successo a destra del Partido Nacional. In seno alla DC si delineno differenziazioni crescenti; mentre un settore moderato, preoccupato per la stabilità e l’ordine, guarda a destra, settori riformisti più legati alla base operaia e contadina, insoddisfatti delle incertezze di Frei, propugnano un approfondimento delle riforme. Uno di questi settori rompe nel 1969 con il partito e fonda il Mapu (Movimiento de Acción Popular Unitario) che si dichiara marxista e anticapitalista e si orienta verso l’Unidad Popular. La polarizzazione politica tocca anche il Partido radicale, storica formazione borghese progressista: mentre un settore si unisce alla destra, un altro rompe a sinistra formando Democracia Radical. Avvicinandosi le presidenziali del settembre 1970, il bilancio del riformismo democristiano non può essere più disastroso. Da un lato la DC si avvia alla sconfitta, dall’altro i conflitti sociali e politici si vanno radicalizzando: le masse operaie e contadine, i pobladores, tutti gli strati sfruttati della società cilena vogliono di più e subito, mentre le classi dominanti, sempre più divise, stanno perdendo il controllo della situazione e si ritirano spaventate dai propri stessi propositi riformisti. Settori crescenti, anzi, guardano alla destra e ai militari come agli unici strumenti utilizzabili per una rapida restaurazione dell’ordine e dei propri privilegi. Anche a Washington l’allarme per la situazione politica cilena è massimo e ci si prepara ai peggiori scenari (14). In estrema sintesi: si va delineando una crisi profonda della società e dello Stato che preannuncia sviluppi rivoluzionari.Il risultato elettorale del 4 settembre 1970 è un riflesso di questa crisi e a sua volta contribuisce ad accelerarla e ad approfondirla.
Il progetto di Allende e dell’Unidad Popular
Il movimento operaio cileno ha una lunga tradizione di lotte e di organizzazione che risale alla fine dell’Ottocento. Qualche informazione essenziale a questo proposito. Nei primi anni del XX secolo diversi episodi di sangue segnano l’apprendistato del movimento operaio. Nel 1909 si forma la prima centrale sindacale, la Federacion Obrera de Chile, diretta da Luis Emilio Recabarren, il primo operaio eletto al parlamento (nel 1906). Sotto il suo impulso nel 1913 viene fondato il primo partito operaio della storia cilena, Partido Obrero Socialista. Nel 1919, sull’esempio della rivoluzione russa, si realizza per qualche tempo un’esperienza di poder popular nella città portuale di Puerto Natales. Nel 1922 viene fondato il Partito comunista che ha in Recabarren il dirigente più rappresentativo. Nel 1933 sorge anche il Partito socialista, che conserverà una particolare fisionomia di sinistra e la presenza di tendenze diverse, anche “rivoluzionarie” (più propriamente definibili “centriste” da un punto di vista marxista rivoluzionario), tanto è vero che ancora nel 1969 il congresso del partito vota una mozione che rivendica la conquista del potere per “via insurrezionale”. Nel 1933 si forma Izquierda Comunista, che si collega all’Opposizione di sinistra internazionale trotskista, e da cui sorge più tardi il Partido Obrero Revolucionario (Por), che ha nel dirigente sindacale Humberto Valenzuela il suo esponente più noto. Nel 1965, nel clima creato dalla rivoluzione cubana, il Por partecipa alla formazione del Movimiento de Izquierda Revolucionaria (Mir). Il Mir è il frutto di un processo di ragruppamento di tendenze classiste e rivoluzionarie di diverso orientamento (guevarista, trotskista, maoista). Diventa in pochi anni una delle organizzazioni rivoluzionarie più importanti dell’America latina, forte di più di due mila militanti, con un’importante influenza in settori studenteschi e popolari e una presenza operaia non marginale. E’ però segnato da gravi limiti politici e strategici; in estrema sintesi: da una linea guerriglierista che lo porta ad azioni sostitutiste e all’incomprensione e all’isolamento rispetto al movimento reale delle masse, proprio nel momento cruciale della vittoria elettorale dell’Unidad Popular (15). Nel 1953 è sorta anche la Central Unica de Trabajadores de Chile (Cut), la centrale sindacale operaia che alla fine degli anni sessanta organizza la maggioranza relativa del proletariato industriale. Tuttavia, a dispetto della forte vocazione classista che si esprime sul terreno organizzativo, i partiti maggioritari (comunista e socialista) si caratterizzano sostanzialmente per una linea riformista che si è già tradotta in diversi momenti precedenti (segnatamente nel 1938 e nel 1947) nel sostegno e/o nella partecipazione dei partiti operai ad alleanze e governi di “fronte popolare” guidati dal Partito radicale. Anche la realizzazione del Frente de Acción Popular (Frap) nel 1957, coalizione elettorale fra il Partito comunista e quello socialista, rientra in uno schema politico di tipo democratico-fronte populista. In questo senso, la costituzione nel 1969 della coalizione di Unidad Popular, pur con la rilevante novità dell’egemonia dei partiti operai, si inserisce nella continuità di una consolidata tradizione riformista del movimento operaio cileno.
Il programma dell’Unidad Popular
La proposta di una allenza politico-elettorale ampia, che superi a destra i confini della coalizione esistente (il Frap), viene avanzata dal Partito comunista che, in coerenza con la propria ispirazione stalinista e in una chiara logica di “rivoluzione a tappe”, vuole realizzare un’alleanza fra la classe operaia e i settori “avanzati” della borghesia nazionale, in contrapposizione ai settori “arretrati” della stessa, identificati in Cile con l’oligarchia latifondista, i settori monopolistici e/o legati all’imperialismo straniero, in particolare nordamericano (16). L’Unidad Popular (UP) si forma dunque verso la metà del 1969 in vista delle elezioni presidenziali dell’anno successivo. Oltre al PC e al PS, vi confluiscono il Mapu (nato dalla scissione di sinistra della DC di cui si è detto), il Movimiento de Accion Popular Independiente (Api, una formazione piccolo borghese), il piccolo Partido Socialdemocrata (in realtà di orientamento cristiano sociale), e il Partido Radical, che rinuncia a presentare Alberto Blatra come proprio candidato (17). Il programma dell’Unidad Popular (18), presentato alla fine dell’anno, delinea una strategia democratica che combina propositi antimperialisti e antioligarchici con un progetto avanzato di riforme economico-sociali e politiche che ha come referenti dichiarati la classe operaia, i contadini e le masse popolari, ma anche i ceti medi e i settori borghesi interessati alla modernizzazione del paese, al controllo delle risorse nazionali, allo sviluppo del mercato interno e al sostegno all’industria nazionale. Le proposte sul terreno economico (riforma agraria, redistribuzione del reddito, nazionalizzazione del rame, delle banche e dei settori industriali strategici) si pongono in continuità piuttosto che in rottura con la politica del governo Frei (19). Sul terreno politico l’UP cerca di rassicurare la borghesia con dichiarazioni di lealtà democratica e costituzionale, arrivando a delineare un rafforzamento del ruolo delle Forze armate. Nel contempo prospetta alcune riforme razionalizzatrici (camera unica eletta con criteri proporzionali) e un allargamento della democrazia attraverso la partecipazione delle organizzazioni popolari a nuovi organismi di un preteso poder popular, non contro ma a lato delle istituzioni esitenti, così da trasformarle in un vero estado popular (20) attraverso il quale sia possibile avviare il processo di transizione pacifica al socialismo. Viene anche annunciata una nuova Cosituzione, che “incorpori il popolo nell’esercizio del potere statale”, da approvare con un referendum popolare. Il programma chiama anche alla costruzione di comitati di base dell’Unidad Popular, che non solo devono agire come comitati elettorali ma devono altresì “prepararsi a esercitare il poder popular” (21).
La vittoria di Allende
Il 22 gennaio 1970 l’Unidad Popular sceglie Salvador Allende come proprio candidato alle elezioni presidenziali. Per Allende, figura di prestigio della sinistra cilena, sarà la quarta volta che corre per la presidenza come candidato comune delle sinistre (22). Nelle condizioni di crisi e di ascesa delle masse, la sua candidatura diventa il canale attraverso cui si esprime la volontà di cambiamento di vasti settori del popolo cileno. La sua vittoria viene perciò sentita come una sconfitta della classe dominante e contribuirà pertanto a stimolare la determinazione e le lotte dei lavoratori. Significativamente, la borghesia non riesce a contrapporre ad Allende una candidatura unica. Mentre la destra si rivolge alla figura di Jorge Alessandri, nella DC prevale la componente riformista che candida un esponente della sinstra interna, l’ex ambasciatore a Washington Rodomiro Tomic (23). Se è vero che la divisione dal fronte borghese favorisce il candidato dell’Unidad Popular, è anche vero che la scelta di Tomic da parte della DC non riflette solo lo spostamento a sinistra della base popolare del partito ma esprime anche il disegno cosciente di contendere ad Allende i settori popolari attratti dalla sua candidatura. In effetti, delineatasi una divisione dei consensi dei settori popolari (operai, contadini, pobladores…) fra Allende e Tomic, sembra a un certo punto che Alessandri possa facilmente prevalere. La campagna elettorale conosce comunque toni molto accesi che contribuiscono a radicalizzare gli animi. La destra sviluppa una campagna terroristica in cui arriva a prevedere, se vincesse Allende, i carri armati russi fuori dalla Moneda; Tomic radicalizza progressivamente i propri toni nel tentativo di sottrarre al candidato delle sinistre l’elettorato popolare. Il 4 settembre, tuttavia, anche se per poche decine di migliaia di voti, Allende vince (24). Va anche osservato che, malgrado l’allargamento a destra al Partito radicale, l’UP ottiene nel 1970 un risultato inferiore a quello del 1964. Ora, non avendo nessun candidato ottenuto la maggioranza assoluta, la tradizione costituzionale del Cile prevede che il Congresso in seduta congiunta nomini presidente il candidato primo piazzato. In questo caso, però, il rispetto di questa prassi appare tutt’altro che scontato e cominciano subito i tentativi per rimettere il discussione l’esito del voto popolare. In parlamento, infatti, la DC e la destra godono della maggioranza assoluta (25).
Dal 4 settembre al 4 novembre
La borghesia cilena ha già fatto due volte in precedenza l’esperienza del fronte popolare, negli anni trenta e quaranta, e sempre con risultati “positivi” dal suo punto di vista. Ma questa volta il quadro è diverso: la credibilità dei suoi partiti è logorata, il peso dei partiti operai predominante, la radicalizzazione delle masse più profonda. Forse più ancora che dalla borghesia cilena – una frazione della quale può sperare di ricavare dei benefici da un governo riformista – il governo Allende viene giudicato intollerabile a Washington. Kissinger e Nixon sono allarmati dalle possibilità di contagio dell’esempio di un governo “marxista” che giunge al potere attraverso le elezioni. Il segretario di Stato, Henry Kissinger, spiega che “è facile prevedere che se Allende ottiene la presidenza, ci sono molte probabilità che nel giro di qualche anno si instauri un governo comunista… un governo comunista unito, ad esempio, all’Argentina, che già è profondamente lacerata, unito al Perù… unito alla Bolivia, che già è andata molto a sinistra, contro gli Stati Uniti. Credo che non dobbiamo autoilluderci che se Allende assume il controllo del Cile non ci provocherà dei problemi…”. L’amministrazione repubblicana, che ha rinfacciato per un decennio ai democratici la nascita di Cuba socialista, teme una replica in Cile di quella sfida. Per questo si vuole evitare in tutti i modi l’insediamento di Allende e a tale scopo Richard Nixon autorizza la Cia a “fare tutto il possibile, salvo un’azione del tipo Repubblica Dominicana”. Il 15 settembre, in una riunione con Richard Helms, il capo della Cia, Richard Nixon dà mandato ai capi dell’agenzia di predisporre un piano da sottopore a Kissinger “Una possibilità su dieci, ma liberiamo il Cile da quel figlio di puttana!”) mettendo subito a disposizione dieci milioni di dollari. Ovviamente c’è il massimo allarme anche nelle multinazionali Usa che hanno i maggiori investimenti in Cile, come l’Itt che è minacciata dal programma di nazionalizzazioni di Allende. In effetti, appena noto l’esito del voto del 4 settembre si delinea immediatamente una situazione allarmante, accentuata ad arte dalle dichiarazioni dei rappresentanti del governo in carica: fuga di capitali all’estero, corsa al ritiro dei depositi dalle banche, immediata sospensione degli investimenti e dei pagamenti da parte delle imprese straniere, riduzione degli investimenti interni, dichiarazioni allarmistiche della stampa dei ministri del governo uscente. E’ solo l’inizio… Sul terreno politico si delineano subito tre possibili scenari. Il primo: la ratifica parlamentare di Allende; ma la DC subordina il suo voto a determinate condizioni: l’esplicito impegno di Allende di rispettare tutta una serie di vincoli politici e istituzionali che prendono la forma di un documento denominato Estatuto de las Garantías Costitucionales (ne parliamo più estesamente più avanti). Il secondo: la DC vota per Alessandri, il candidato secondo arrivato, con l’impegno di quest’ultimo di dimettersi subito e di indire nuove elezioni in cui la DC e la destra dovrebbero accordarsi su un candidato comune (eventualmente lo stesso Frei) da opporre ad Allende. Infine il terzo scenario: esso prevede né più né meno che un colpo di Stato militare che impedisca l’insediamento di Allende. Washington si muove immediatamente per realizzare il secondo, o se il secondo non riesce, il terzo, degli scenari descritti. L’ambasciatore statunitense a Santiago, Edward Korry, dichiara a Frei che gli Stati Uniti non lasceranno arrivare in Cile “una sola vite e un solo dado, sotto Allende”. Ma Frei non è disponibile a tentare il golpe istituzionale per timore della reazione popolare (26). Anche il secondo scenario – un golpe preventivo delle Forze armate – si dimostra impraticabile per l’indisponibilità dei vertici militari, in particolare del comandante in capo dell’Esercito, il generale Renè Schneider, secondo il quale nel contesto dato l’intervento dei militari può provocare una rivolta popolare e la guerra civile (27). Non rassegnata, l’estrema destra cerca di forzare la mano ai militari con un’azione che si rivela un disastro. Il 22 ottobre, un gruppo paramilitare diretto dal generale Viaux e armato dalla Cia, tenta di sequestrare il generale Schneider con l’intento di farne ricadere la responsabilità sull’estrema sinistra. Ma il piano fallisce: il generale reagisce con le armi e viene gravemente ferito; muore tre giorni dopo. I suoi assassini sono rapidamente individuati e arrestati (28). Il fallito attentato contribuisce a far realizzare il primo scenario. Il 24 ottobre il Congresso ratifica l’elezione di Allende. Due giorni prima ha approvato le riforme costituzionali, proposte dalla DC e accettate da Allende, con cui questi si vincola: ad applicare senza modifiche la riforma agraria di Frei; a non ostacolare la costituzione e lo svilppo delle scuole private; a non modificare i testi scolastici della scuola primaria e secondaria; a non espropriare i mezzi di comunicazione di massa; a non ammettere “organismi di fatto che operino in nome di un supposto poder popular”; e, soprattutto, a lasciare immutata la struttura gerarchica delle Forze armate e dei Carabineros e le regole di selezione e avanzamento degli ufficiali; nonché a riconoscere l’autonomia (!) dei corpi armati dello Stato borghese (invece del tradizionale dovere di obbedienza nei confronti del potere esecutivo) e la loro funzione di “garanti della convivenza democratica” (una sorta di “diritto di ingerenza” nella vita politica…). Viene così precostituito, con la firma dello stesso Allende, l’appiglio legale per il golpe del settembre 1973 (29). In realtà, l’accettazione dello Statuto delle garanzie (preteso dalla DC per conto della classe dominante e dell’imperialismo) contraddice qualsiasi dichiarazione sulla “transizione al socialismo” proclamata nel programma dell’Unidad Popular o nei discorsi di Allende. Essa rappresenta l’accettazione piena e definitiva del quadro dello Stato borghese cileno quale esso è, la rinuncia a ogni intenzione anche solo di “riforma” dello stesso, addirittura la rinuncia ad esercitare alcune delle prerogative costituzionali del presidente. Questo passo svela la vera natura dell’Unidad Popular: si tratta di una forma di collaborazione di classe fra i gruppi dirigenti del movimento operaio e la classe dominante nel contesto di una acuta crisi politica e sociale (“fronte popolare”). La borghesia accetta di cedere (per il momento) la massima carica dello Stato in cambio della garanzia di conservare sotto il proprio diretto controllo gli strumenti fondamentali del proprio dominio. Insomma, una lezione di “marxismo pratico” impartita ai dirigenti “marxisti” del movimento operaio dai rappresentanti della classe dominante, la quale dimostra di sapere per lunga esperienza storica in che cosa consista, in ultima analisi, il suo dominio sulla società. Resta da aggiungere che i dirigenti del PC e del PS minimizzarono il valore della firma di questo accordo e il suo testo fu tenuto accuratamente nascosto alla base…
La prima fase: le realizzazioni del governo Allende
Il 4 novembre 1970 Allende assume ufficialmente i poteri presidenziali, insedia il suo governo e inizia con grande energia l’attuazione del programma dell’Unidad Popular, a partire dalle “prime quaranta misure di base”. Si può senz’altro affermare che il primo anno del governo Allende risulta complessivamente positivo, sia per la quantità di realizzazioni, sia per gli effetti che queste comportano sulle condizioni di vita di milioni di cileni, per gli immediati riflessi nel rapporto fra l’UP e le masse e fra l’UP e l’opposizione (30). Fra le misure più significative realizzate nel primo anno merita qui elencare: la refezione scolastica per tutti gli alunni della scuola di base; il programma che concede gratuitamente mezzo litro di latte al giorno a ogni bambino al di sotto dei 14 anni e alle madri in attesa; l’istituzione di asili nido e scuole d’infanzia per 80 mila bambini e l’apertura di nuove scuole di vario grado; la distribuzione gratuita dei libri di testo nella scuola dell’obbligo; l’aumento delle le borse di studio (le iscrizioni al primo anno di università aumentano subito dell’80%); l’apertura di consultori e di nuovi ospedali; un programma di edilizia popolare e l’imposizione di un tetto a un quinto del salario per il pagamento dei debiti ipotecari; una campagna di alfabetizzazione degli adulti; l’estensione a tutti della pensione di vecchiaia e l’innalzamento dei minimi salariali e pensionistici e degli assegni familiari; l’introduzione di un meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’aumento dei prezzi. Sono inoltre concessi incentivi per il cinema, per le attività culturali in genere e per la ricerca scientifica. Sul terreno democratico il governo di UP estende il diritto di voto ai diciottenni e agli analfabeti; riconosce i diritti fino allora negati ai popoli indigeni Mapuche e Aymara, a cui vengono restituiti 70 mila ettari di terre; introduce una serie di meccanismi che oggi diremmo di “democrazia partecipativa” sul piano locale e sociale. Sono inoltre riconosciuti e allargati i diritti sindacali. Nel clima di crescente mobilitazione, la Cut tocca i 900 mila iscritti, pari a circa il 30% della forza lavoro del settore privato. Attraverso la contrattazione sindacale, incoraggiata dal nuovo quadro politico, i lavoratori conquistano sostanziali aumenti dei salari reali, e ciò malgrado il permanere di un tasso di inflazione piuttosto elevato, nel 1971 attorno al 20% (31). Già fra il dicembre del 1970 e il gennaio del 1971 il governo presenta in parlamento varie leggi per l’avvio delle riforme economiche di maggior rilievo, come la nazionalizzazione del rame, l’istituzione dell’Area de propiedad social (Aps), la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese statali; contemporaneamente procede all’acquisizione allo Stato delle banche, della compagnia telefonica (la Itt statunitense) e dei maggiori monopoli e accelera l’attuazione della riforma agraria. Mentre si avviano queste riforme, viene attuata una politica economica fortemente espansiva che consente al paese di uscire dalla recessione in cui è precipitato negli ultimi due anni del governo Frei. L’utilizzo degli impianti risale dal 75 al 95%, la disoccupazione scende in due anni dal 9 a meno del 4%, la crescita del Pil raggiunge nel 1971 il 7,7%. Della positiva situazione economica approfittano naturalmente anche commercianti e piccoli imprenditori che capiscono rapidamente che “si possono fare buoni affari anche con un governo di sinistra”. Tutto ciò ha un immediato riscontro politico nelle elezioni amministrative dell’aprile del 1971. L’Unidad Popular ottiene un successo senza precedenti, arrivando al 50,9% dei voti. E’ questo il momento favorevole, se Allende e i dirigenti dell’Unidad Popular lo volessero, per convocare il referendum per una nuova costituzione e “per istituzionalizzare l’incorporazione del popolo nel potere dello Stato”. Ma evidentemente l’accordo con la DC nell’ottobre precedente impone di accantonare simili propositi…
La nazionalizzazione del rame
L’11 luglio 1971 (data subito eretta a Festa della dignità nazionale) il parlamento cileno approva all’unanimità (!) la nazionalizzazione delle miniere del rame in mani straniere. Il fatto non è così sorprendente: si completa in tal modo un progetto che è stato avviato dal governo democristiano; d’altra parte, alle compagnie espropriate è concesso un adeguato compenso, anche se Allende fa inserire nel calcolo dell’indennizzo uno “sconto” per i superprofitti realizzati dalle compagnie negli anni precedenti (32). Si costituisce la Corporación del Cobre (Codelco), che diventa la principale impresa produttiva mondiale del settore per volume di esportazioni e una delle più efficienti per produttività e bassi costi di estrazione. Con procedure analoghe viene avviata anche la nazionalizzazione delle miniere di salnitro, di carbone e di ferro (la cui estrazione alla fine del ’71 è già controllata al 95% dallo Stato).
Le altre nazionalizzazioni
Nel 1970 il sistema bancario cileno è particolarmente concentrato (il 3% delle banche monopolizza il 45% dei depositi, il 55% dei profitti e il 44% dei prestiti). Tra il dicembre ’70 e il gennaio ’71 il governo attua la nazionalizzazione delle banche nazionali e delle assicurazioni dando ordine alla Banca centrale di acquistare il 51% delle loro azioni. In modo analogo è attuata la nazionalizzazione delle banche estere (fra cui le filiali delle americane First National City Bank e Bank of America) con l’accordo delle banche medesime, mediante l’acquisto delle loro azioni (facilitato da un prestito concesso dalle banche stesse allo Stato e da restituire in 5 e 7 anni). Il controllo del credito consente subito di allargare i prestiti ai piccoli e medi produttori e alle cooperative e di abbassare i tassi di interesse dal 18 al 12%. Nel 1971 viene nazionalizzata anche la Compañía de Teléfono y Telégrafo, proprietà della multinazionale nordamericana Itt.
L’“Area de propiedad social”
L’attuazione del programma in materia di nazionalizzazioni nel settore industriale procede invece più a rilento e con conflitti molto più aspri con i proprietari espropriati. Ancora più significativo è il fatto che speso l’iniziativa è assunta direttamente dai lavoratori, che mostrano di avere un’idea diversa dal governo sul senso e sui modi delle nazionalizzazioni e che non esitano a spingersi oltre i confini fissati dai burocrati ministeriali. In molti casi i lavoratori semplicemente occupano la propria fabbrica e poi rivendicano la sua inclusione nell’Aps. Le imprese che in un modo o nell’altro passano sotto il controllo dello Stato confluiscono nell’Area de Propiedad Social (Aps), sottoposta a una guida nazionale centralizzata che ha lo scopo di farne il settore propulsivo dello sviluppo economico del paese. Nei fatti, le nazionalizzazioni del governo di Unidad Popular non sono diverse da quelle di un qualsiasi governo borghese. Non solo prevedono l’indennizzo dei capitalisti espropriati, ma non si inseriscono in un progetto di rovesciamento del capitalismo e di trasformazione dei rapporti sociali. Sono concepite, soprattutto dal PC, in una logica prevalentemente produttivistica di cui i lavoratori sono chiamati a farsi carico in nome del “bene nazionale” e in ragione del fatto che al governo ci sono i partiti di sinistra… La gestione delle singole imprese è invece affidata a comitati paritetici di rappresentanti eletti dai lavoratori e di funzionari nominati dal governo. Ma mentre i primi decadono ogni anno, i secondi sono irrevocabili e spesso agiscono con la stessa arroganza dei vecchi padroni. Questo conflitto, dapprima latente, tende a diventare aperto nel corso del 1972, a fronte di due sviluppi quasi concomitanti: da un lato, i compromessi che il governo stabilisce con le forze padronali e con la DC, che prevedono in molti casi la restituzione delle aziende occupate dai lavoratori; dall’altro, la crescente attivazione indipendente dei lavoratori in risposta alla disorganizzazione economica provocata dalla sedizione della borghesia (le serrate, il disinvestimento, gli attentati, ecc.). Nel dicembre del 1971 la lista del governo delle imprese da includere nell’area di proprietà sociale e dell’area di proprietà mista comprende 91 imprese, di cui 74 manifatturiere. Un anno dopo, le imprese in mano allo Stato (“requisidas” o “intervenidas”) sono 202, di cui ben 152 non previste nel piano iniziale del governo (33). Il progetto di legge Prats-Millas degli inizi del 1973, volto a definire i precisi confini dell’Area Social per rassicurare la borghesia, ne include circa 120 e alcune sono ancora in mani private. Ciò significa che il governo si prepara a restituirne circa un centinaio ai vecchi proprietari! Ciò provoca la reazione dei settori più avanzati dei lavoratori. Il 30 gennaio ’73, contro il piano Millas si svolge a Santiago una grande manifestazione operaia convocata dai cordones industriales. Sul versante parlamentare il governo si scontra invece con la DC e con la destra che proprio su questi temi faranno approvare nell’estate del 1973 un ordine del giorno che accusa il governo di essere fuori dalla legalità, fornendo così un alibi per l’intervento dei militari.
L’accelerazione della riforma agraria
Sul terreno della riforma agraria il governo di Unidad Popular si limita ad accelerare l’applicazione della riforma varata da Frei. Nei primi 18 mesi di Allende soro infatti espropriati quasi 5,3 milioni di ettari complessivi, ossia quasi il doppio della distribuzione di terre realizzata da Frei. La ripartizione della terra realizzata da Allende, sommata a quella attuata dal governo Frei, mette fine in Cile al latifondo incolto. Sono beneficiate dalla riforma agraria circa 50 mila famiglie. Un risultato senza dubbio significativo, anche se tutto interno al quadro democratico-borghese. D’altra parte, la riforma era stata concepita per modernizzare il capitalismo nelle campagne e per allargare il mercato interno, non per avviare la transizione al socialismo… Le possibilità rivoluzionarie di questo intervento sono indebolite anche dal modo in cui è attuato. Le terre espropriate sono assegnate a livello provinciale, con la partecipazione delle organizzazioni contadine, secondo tre modalità principali: gli asentamientos, le assegnazioni individuali; i centros de riforma agraria (Cera), ossia grandi aziende collettive; e i centros de produción, grandi imprese statali. Mancano però le risorse per promuovere una rapida modernizzazione tecnologica e il governo non riesce ad attuare una efficace pianificazione del settore. La maggior parte delle terre sono assegnate per la coltivazione direttamente alle famiglie contadine. Il governo Allende cerca di incentivare i contadini a unirsi in cooperative, ma queste non incontrano massicce adesioni. Con i Cera si vogliono realizzare invece grandi aziende collettive modello, amministrate dai contadini stessi, su terre particolarmente produttive di proprietà dello Stato; i lavoratori vi percepiscono un salario base uguale, integrato da una parte proporzionale ai risultati produttivi di ciascuno; nei Cera le donne sono considerate su un piano di parità con i lavoratori maschi; nel 1973, tuttavia, queste esperienze avanzate non coinvolgono più di tre mila famiglie. I centros de produción sono invece grandi imprese statali tecnologicamente attrezzate in relazione a specifici ecosistemi (ad esempio le colture forestali, l’avicoltura, ecc.) che offrono le maggiori possibilità di assorbire il bracciantato. Il dato politicamente più significativo è tuttavia un altro: la riforma viene attuata essenzialmente per via burocratico-amministrativa, non attraverso la mobilitazione diretta dei contadini, che quando si sviluppa, invece, tende a scontrarsi con i funzionari del governo. Ciò non manca di provocare malcontenti e risentimenti per i ritardi e le inefficienze, che in certi casi offrono il destro per attacchi demagogici dell’opposizione. Da un punto di vista strettamente economico, comunque, la riforma dà risultati abbastanza positivi; la produzione agropastorale aumenta del 5% nella stagione 1970-71 e dell’1,6% l’anno dopo, pur scontando il boicottaggio dei proprietari espropriati. Questi aumenti non bastano tuttavia a far fronte all’aumento della domanda, conseguenza delle maggiori entrate dei lavoratori e dei settori più poveri. Va detto però che i problemi di approvvigionamento dipendono soprattutto dal sabotaggio economico messo in opera dal padronato e dall’imperialismo (34).
Le “juntas de abastecimientos y precios”
Una iniziativa del governo Allende complementare alla riforma agraria è la creazione di imprese statali nei settori della commercializzazione e della distribuzione, per rompere il quasi monopolio detenuto da grandi compagnie spesso controllate dal capitale straniero, come Balfour, Gibbs, Williamson ecc. Parallelamente vengono istituite le juntas de abastecimientos y precios (Jap), elette a livello comunale, con il compito di incentivare forme di autogestione nella distribuzione dei beni di base, in rapporto diretto con le aziende dell’area sociale, in particolare nei settori alimentare e tessile. Questi strumenti, coordinati a livello locale dei commandos comunales, diventeranno un canale importante della mobilitazione popolare per contrastare il paro padronale dell’ottobre ’72 e successivamente.
Le iniziative di politica internazionale
Delineando le principali realizzazioni del governo di Unidad Popular non si può mancare di accennare brevemente alle iniziative assunte sul terreno della politica estera, in genere connotate da un forte valore simbolico. Il primo passo è il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Cuba (più tardi con la Cina, il Vietnam e la Repubblica democratica tedesca); il secondo è la dichiarazione del Cile “nazione non allineata”. Seguono l’invito a Fidel Castro (che si tratterrà in Cile per ben tre settimane nel novembre del 1971), un lungo tour nelle capitali dell’America latina e in Unione sovietica, in cerca di sostegno economico. Nel dicembre 1972 Allende pronuncia all’Onu una vigorosa denuncia dell’imperialismo nordamericano e dei suoi piani di strangolamento dell’economia cilena. Alla prova dei fatti, però, Allende continuerà a pagare il servizio sull’esorbitante debito estero ereditato dal suo predecessore; solo alla fine del 1972 chiederà una moratoria dei pagamenti.
La seconda fase: dalla ritirata alla resa
In verità, come abbiamo visto, l’inizio dell’offensiva borghese e imperialista contro Allende precede la sua elezione e si intensifica nei due mesi che precedono la sua assunzione della presidenza. Da subito essa è ispirata e guidata direttamente da Washington. Ancor più che per la borghesia cilena – una frazione della quale può anche pensare di poter beneficiare dalle riforme dell’Unidad Popular (che, come si è visto sopra, si muovono in continuità con quelle del governo Frei) – il governo Allende è ritenuto una minaccia intollerabile dai massimi dirigenti dell’imperialismo nordamericano. A Washington, Kissinger è allarmato per le possibilità di contagio dell’esempio di un governo “marxista” che “va al potere” (in realtà solo al governo) attraverso le elezioni, ossia con piena legittimità “democratica” secondo gli usuali parametri borghesi. L’amministrazione repubblicana, che ha contestato per anni a quella democratica di aver permesso la nascita della Cuba socialista, teme una replica in Cile di quella sfida. Viene pertanto deciso che l’esperimento allendista deve fallire. Non essendo riuscito, come si è visto, il tentativo “preventivo” di impedire l’ascesa di Allende alla presidenza, si decide che Allende deve essere rovesciato.
La strategia della “destabilizzazione”
La questione è affrontata a Washington con grande impegno e concepita come un vero e proprio “esperimento” di controrivoluzione. La strategia prescelta viene definita con un termine che diventerà tristemente famoso: “destabilizzazione”. Si tratta in buona sostanza di provocare il caos economico, di suscitare contro il governo le proteste di settori sociali colpiti e/o spaventati dai media, di suscitare un clima di insicurezza e di violenza atto a giustificare l’invocazione di un golpe per ristabilire la legge e l’ordine. A questo scopo viene costituito a Washington un Comitato speciale (Comitato 40) e stanziate ingenti somme che vanno a finanziare in Cile le organizzazioni, i giornali, le radio dell’opposizione; le azioni di sciopero, il sabotaggio economico, i gruppi paramilitari che agiscono con attentati e assassini politici (35). Gli effetti di questa strategia cominciano a farsi pesanti verso la fine del 1971. La situazione economica peggiora. Il pagamento degli indennizzi (36), il blocco economico attuato di fatto dagli Usa contro le esportazioni cilene, il taglio dei crediti da essi imposto anche alle istituzioni internazionali sotto il loro controllo, la caduta di un terzo degli introiti del rame, dovuta al crollo del prezzo mondiale del metallo provocata dalla decisione di Nixon di vendere la riserva strategica statunitense, cominciano a creare crescenti problemi all’economia cilena (37).
Anche per evitare una ricaduta nella recessione, il governo continua nella politica monetaria e creditizia espansiva, con la conseguenza di indurre un’accelerazione dell’inflazione (38). Cominciano a scarseggiare i beni di prima necessità nei negozi, fanno la loro comparsa le code e il mercato nero, tutti fenomeni che colpiscono e peggiorano le condizioni di vita di vasti settori della popolazione, ma che sono percepiti con particolare irritazione dai ceti benestanti poco adusi a simili disagi. Facendo leva su queste difficoltà, l’opposizione ricorre anche alle manifestazioni di piazza. Il 1 dicembre 1971 ha luogo una Marcha de las cacerolas davanti alla Moneda: sono soprattutto le donne dei ceti medi a protestare per la mancanza dei beni nei negozi. Le mobilitazioni di questo o quel settore di piccola borghesia o di lavoratori professionali diventano più frequenti nei mesi successivi, incoraggiate dal sostegno, anche finanziario, che ottengono dall’estero (39). Di fronte alle difficoltà e alle crescenti iniziative dei suoi avversari, l’UP si divide. Il confronto si sviluppa in due incontri (il primo all’inizio dell’anno, in secondo a giugno) in cui si riuniscono con Allende i vertici dell’Unidad Popular e del governo. L’incontro di Lo Curro, nel giugno del 1972, può essere assunto come uno spartiacque. Si scontrano due posizioni. La prima è quella sostenuta dal PC e dalla maggioranza allendista del PS: bisogna cercare un nuovo accordo con la DC ed evitare a ogni costo l’aggravarsi di una crisi per la quale, secondo il PC, “né l’UP né le forze sociali su cui essa si fonda sono preparate”; la parola d’ordine è “calmare le acque”. Ciò significa però enfatizzare gli obiettivi produttivi e opporsi frontalmente all’azione indipendente delle masse. La seconda posizione è sostenuta dalla sinistra del PS, dal Mapu e dalla Izquierda Cristiana, che spingono invece per “avanzar sin transar” (andare avanti senza negoziare), ossia completare il programma appoggiandosi sulla mobilitazione dei lavoratori e delle masse. Alla fine Allende attua un rimpasto del governo. Il ministro dell’economia Pedro Vuskovic, esponente della sinistra socialista, deve cedere il posto. Al ministero delle finanze va Orlando Millas, esponente del PC e della linea vincente. Contemporaneamente si realizza un accordo con la DC per le nomine ai vertici delle banche nazionalizzate e si stabilisce di escludere dall’area sociale la Compañia manufacturera de papeles y cartones, la maggiore impresa nel settore di proprietà di… Jorge Alessandri! (In questo contesto nel giugno 1972 si svolgono anche le elezioni per la direzione della Cut nelle quali le liste dei partiti dell’UP e della DC raccolgono rispettivamente il 70 e il 30% dei voti). In realtà lo scontro ha rivelato che l’UP nel suo insieme non ha la comprensione esatta della nuova situazione. Ciò che accade è il fatto che la borghesia è sempre più preoccupata del fatto che le masse sfruttate tendono a “rompere le dighe” ed è perciò sempre meno disposta a concedere altro tempo alle direzioni riformiste. Per un verso, dunque, è destinata a fallire la politica di accordo cercata dal PC e da Allende, in quanto la borghesia non è affatto intenzionata a concludere patti con gruppi dirigenti che non sono più in grado di garantirli. Per un altro, d’altra parte, è del tutto inadeguata la posizione di chi vuole procedere con le riforme senza rendersi conto che la dinamica rivoluzionaria che si è messa in moto non può risolversi, in ultima analisi, che con mezzi rivoluzionari, ossia con la presa del potere statale; o essere stroncata dalla razione violenta della classe dominante attraverso le istituzioni statali che essa ancora controlla, in primo luogo l’istituzione militare.
La nascita dei “cordones industriales”
Effetto di questi processi contraddittori (le masse vanno a sinistra, il governo va a destra), dalla metà del ’72 si moltiplicano i conflitti fra le lotte operaie e contadine e il “governo popolare”. Durante uno di questi episodi – la mobilitazione dei contadini della poblacion di Melipilla, nei pressi di Santiago, che reclamano la terra e la rimozione di un magistrato che ritarda le assegnazioni – interviene anche la polizia e ne seguono scontri e 20 arresti. Quando però la settimana seguente i contadini occupano la strada, si incontrano con gli operai di alcune fabbriche della vicina località di Cerrillos che hanno costituito un coordinamento di delegati. Nasce così nel giugno 1972 il primo organismo di tipo “sovietico” della rivoluzione cilena, il cordon industrial (coordinamento di settore industriale, costituito da delegati eletti dai lavoratori) promosso dai lavoratori di trenta imprese del settore Cerrillos-Maipú (nell’area di Santiago), il quale farà presto conoscere una dichiarazione “a favore del controllo operaio della produzione” e per una “assemblea dei lavoratori al posto del Congresso”. L’idea si diffonde rapidamente; qualche giorno dopo nasce il cordon industrial in Vicuña Mackenna, altro quartiere operaio di Santiago. Sarà soprattutto nel corso della mobilitazione per contrastare la serrata padronale nell’ottobre seguente che l’idea dei coordinamenti si generalizza: più di cento coordinamenti industriali sorgeranno in tutto il paese, venti nella sola Santiago. Nello stesso senso va l’asamblea popular che si forma alla fine di luglio a Concepción, la seconda città operaia del paese, in cui si ritrovano più di 3.000 delegati, rappresentanti di fabbrica, dei partiti di sinistra e delle organizzazioni popolari e studentesche. Deliberatamente non vi aderisce il PC, che accusa l’assemblea di essere una “manovra della reazione e dell’imperialismo che utilizza come schermo l’ultrasinistra”. Anche Allende attacca l’assemblea di Concepción perché, spiega, “nessun rivoluzionario sensato può ignorare il sistema istituzionale che governa la nostra società, di cui fa parte il governo di Unidad Popular”; la creazione di organismi di doppio potere nel quadro di un governo che rappresenta i lavoratori è una dimostrazione di “irresponsabilità”: “il doppio potere è sorto in altre circostanze storiche, in opposizione a strutture di potere reazionarie che non avevano una base sociale e un appoggio popolare” (40).
Il “paro de octubre” e la sua disfatta
Su questo sfondo, il 9 ottobre comincia lo sciopero dei camionisti con lo scopo dichiarato di far cadere Allende. Il loro leader, Leon Villarin, è un dirigente del gruppo fascista Patria y Libertad. La scintilla che provoca l’incendio è il sospetto che il governo voglia realizzare un sistema di trasporti pubblici, che andrebbe ad intaccato il potere di una corporazione di piccoli proprietari particolarmente potente in un paese con la conformazione geografica del Cile. Il blocco armato da parte dei camionisti e dell’estrema destra dell’unica arteria che mette in comunicazione il nord e il sud del paese provoca rapidamente la penuria di molti generi di prima necessità, del combustibile e delle materie prime. Ai camionisti si uniscono in un secondo tempo altri settori piccolo borghesi (tassisti, medici, avvocati, insegnanti, piccoli negozianti, professionisti…) e soprattutto gli imprenditori la cui associazione proclama la serrata. L’offensiva della borghesia è stata ispirata e viene sostenuta generosamente dai dollari della Cia. Ma ottiene anche un “effetto collaterale” imprevisto e indesiderato (per il padronato): spinge i lavoratori a reagire e a prendere nelle proprie mani non solo il futuro del governo bensì anche il proprio. Di fronte al sabotaggio economico della borghesia i lavoratori si assumono l’onere di far ripartire la produzione: occupano e riaprono le fabbriche chiuse, riorganizzano la produzione e i rifornimenti; in piena emergenza costruiscono un’alternativa operaia all’economia dei padroni (41). In questo contesto nascono i coordinamenti industriali in tutto il paese. I cordones indu-striales diventano la specifica forma cilena dei soviet e rappresentano il punto più alto di organizzazione rivoluzionaria della classe operaia, lo strumento di una svolta potenzialmente decisiva nello sviluppo della crisi rivoluzionaria e del suo sbocco. Non esplicano soltanto compiti pratici di coordinamento degli sforzi economici fra le diverse fabbriche e i diversi settori. Sono in nuce gli strumenti di un contropotere che non solo può opporsi all’autorità padronale sui posti di lavoro o nella produzione, ma costituisce anche la base embrionale di una nuova organizzazione del potere politico, fondata sull’azione diretta delle masse, cioè l’embrione di un dualismo di poteri che è il segno distintivo di una crisi rivoluzionaria matura. I cordones sono inoltre uno strumento del fronte unico perché nei cordones si realizza l’unità della classe nelle sue diverse articolazioni, in quanto essi integrano tutti i lavoratori al di là della loro appartenenza di partito o alla posizione rispetto al governo. Potenzialità analoghe si sviluppano anche nei quartieri e sul territorio. Per contrastare l’interruzione dei rifornimenti, la chiusura dei negozi, l’accaparramento, l’aumento dei prezzi e il mercato nero, si diffondono le juntas de abastecimientos y precios (Jap, comitati di approvvigionamento e dei prezzi) e i comandos comunales (direzioni comunali) che coordinano a livello municipale questi interventi e garantiscono la continuità dei servizi pubblici. Pur se promossi dal governo e sotto il suo controllo, questi organismi diventano canali di una mobilitazione che presto va oltre i meri compiti di coordinamento e di amministrazione economica; passano alla controffensiva requisendo i camion, riaprendo i supermercati chiusi, sgomberando manu militari le strade occupate, ecc.; dall’esigenza di fronteggiare le bande fasciste nascono anche le prime esperienze di autodifesa. In breve, nelle strade e nelle città si assiste al dispiegarsi di una guerra civile strisciante che però non ha, dal lato delle masse, un coordinamento e una direzione coscienti. Infatti, invece di appoggiarsi sull’autorganizzazione delle masse e di mettersi alla loro testa, il governo attiva le risposte istituzionali e proclama la legge marziale, conferendo nelle zone più calde i pieni poteri all’Esercito, che ovviamente li impiega piuttosto per reprimere le iniziative delle masse che per far rispettare la “legalità” al fronte padronale. Dopo 26 lunghissimi giorni, nei quali la classe operaia cilena ha dimostrato di poter prendere in mano il proprio destino e quello del paese, lo sciopero dei padroni può dirsi sconfitto e la classe dominante costretta di nuovo sulla difensiva. Ciononostante, quale prova delle sue buone intenzioni, Allende chiama il 3 novembre i militari a far parte del governo; il generale Prats, capo dell’Esercito, diventa ministro dell’Interno; il generale Bachelet, capo della Forza aerea, si occuperà dei rifornimenti. Più che per spezzare il blocco padronale, la mossa sembra imposta dalla volontà di imporre una tregua al movimento delle masse vittoriose. Luis Corvalan, leader del Partito comunista, saluta l’ingresso dei militari nel governo come un “segno di forza del governo e della democrazia”. Ma il Pentagono, negli stessi giorni, in un rapporto denominato Ottobre in Cile, arriva ad altre conclusioni. Segnala il rischio imminente che il governo sia scavalcato dall’insurrezione popolare e osserva che solo un regime duro potrebbe disarticolare l’organizzazione dei lavoratori (42). In altre parole, il regime “democratico” in Cile ha ormai i giorni contati (43). La radicalizzazione della classe operaia si manifesta anche in un salto nella coscienza politica dei lavoratori che si rivela nelle discussioni sul programma, gli strumenti e le prospettive delle lotte. Si legge nel Pliego del Pueblo (una sorta di manifesto), elaborato e diffuso nell’ambito dei cordones industriales in opposizione al Pliego del Chile diffuso dalla reazione durante lo sciopero dei camionisti: “L’esperienza di queste giornate ha dimostrato che i lavoratori non hanno bisogno dei padroni per far funzionare l’economia. Nei suoi disperati tentativi di paralizzare il paese il padronato ha mostrato soltanto il suo carattere parassitario… La conclusione è chiara: i padroni non servono.” Rispetto all’Unidad Popular: “è necessario… creare un’altra modalità di rapporto con il governo e le sue istituzioni. Nessuno ha il diritto, meno che mai in nostro nome, di agire senza consultarci… Nessun funzionario può dimenticare che la sua prima responsabilità è verso il popolo e che, pertanto, è obbligato a sottostare al suo controllo organizzato”. Sul piano politico si osserva che “non si può risolvere la crisi con concessioni e alleanze con qualche militare di alto grado… Occorre uscire in avanti, appoggiandosi alla forza della classe operaia e delle masse popolari, con un’offensiva permanente come quella delineata nel Pliego del Pueblo.” Gli obiettivi prioritari sono così elencati: “sconfiggere il gabinetto militare e ogni altra concessione”, “no alla restituzione delle imprese statizzate, requisite e occupate durante lo sciopero dei capitalisti e loro incorporazione all’area sociale”, “stabilire definitivamente il controllo operaio in tutte le imprese che restano nell’area privata dove ci siano le condizioni che lo consentono.” Il documento rivendica inoltre la rapida nazionalizzazione senza indennizzo degli investimenti stranieri nel paese, il non pagamento del debito estero e l’abolizione del segreto commerciale e bancario. Chiede ancora di contrastare l’attitudine della borghesia a tagliare gli investimenti imponendo un tetto ai profitti e l’obbligo di reinvestirli. Si avanza poi la richiesta della piena uguaglianza salariale fra uomini e donne sul lavoro e si formulano proposte in favore della liberazione della donna dalla schiavitù dei lavori domestici, come la creazione di asili nido, di mense e lavanderie popolari e lo sviluppo della produzione di elettrodomestici. Infine si chiama a “rafforzare le organizzazioni e i comitati di autodifesa e di vigilanza e a consolidare le Jap” (44).
Lo scontro sul piano Prats-Millas
La divaricazione fra le masse e le direzioni si accentua. Per convincere i lavoratori e lasciare le imprese occupate, il governo non esita a far intervenire i Carabineros e a far arrestare i lavoratori. Nel gennaio 1973 il ministro dell’economia Orlando Millas rende noto un piano che prevede la restituzione ai padroni di un centinaio di imprese già sotto il controllo dello Stato o occupate dai lavoratori e la riduzione a 122 delle aziende dell’area sociale, suscitando immediatamente la risposta dei lavoratori con in testa i cordones industriales di Cerrillos-Maipú e di Vicuña-Mackenna. Si svolgono manifestazioni e si erigono barricate. Il 30 gennaio 1973, marciando su Santiago, i lavoratori cantano per la prima volta: “trabajadores al poder” (45). Il 5 febbraio, nel corso di una manifestazione allo Stadio nazionale di Santiago contro il piano Prats-Millas, compare per la prima volta su uno striscione lo slogan “un pueblo desarmado es un pueblo conquistado” (un popolo disarmato è un popolo vinto). In poco più di un anno la coscienza dei lavoratori, certo “provocata” dalle iniziative della destra e dall’esperienza concreta, ha fatto un enorme balzo in avanti. Si pone ora l’esigenza di coordinare a livello nazionale i cordones per costruire un’alternativa di potere (46), ma la “spontaneità” delle masse, da sola, non può assolvere questo compito. Il governo stesso, infatti, si pone il compito di controllare e sviare questa dinamica che rischia di scavalcarlo e di travolgere la ricerca del dialogo con la borghesia. In un discorso del maggio 1973 Allende osserva: “L’ordine borghese ha perso valore tra i lavoratori, che si sforzano di creare dentro il regime istituzionale dello Stato e la sua normativa legale, un ordine e una disciplina… manifestando la tendenza all’esercizio della democrazia diretta… Si deve creare, insieme con le istituzioni comunitarie e sociali attualmente esistenti, un nuovo centro organizzatore, i comandos comunales, formati da rappresentanti eletti dalle organizzazioni comunitarie e dei lavoratori… e capaci di rendere possibile il controllo popolare sulle istituzioni amministrative contribuendo a combattere lo spirito burocratico… e creare il poder popular, ma non antagonista o indipendente dal governo, che è la forza fondamentale e il capitale su cui possono contare i lavoratori per avanzare nel processo rivoluzionario.” E’ palese l’intento di stravolgere il ruolo dei nuovi organismi indipendenti creati dai lavoratori e di integrarli nell’apparato dello Stato borghese, come sua articolazione subordinata e sottoposta all’autorità del governo (47). Mentre Allende e il governo lanciano la parola d’ordine “No alla guerra civile”, i partiti borghesi, il padronato e l’imperialismo si preparano al golpe, i cordones colgono la situazione: “Noi lavoratori sappiamo che si avvicina l’insurrezione finale dei padroni e ci prepariamo per stroncarla come abbiamo fatto con la serrata di ottobre, poiché pensiamo che non ci può essere pace sociale fra sfruttati e sfruttatori.” (da una dichiarazione del cordon Cerrillos-Maipú). Il 10 aprile nella poblacion di Costitucion si costituisce un’asamblea del pueblo nella quale 25 mila pobladores votano di assumere il controllo del Municipio e di farsi carico di tutti i compiti statali come la sanità, l’istruzione, i trasporti e la distribuzione dei beni essenziali. Il 19 aprile comincia lo sciopero per ragioni salariali dei 13 mila minatori di El Teniente, un impianto di estrazione del rame nazionalizzato da Allende. E’ un episodio che dà una dimensione dirompente alle contraddizioni emergenti fra il governo di Unidad Popular e la sua base sociale, contraddizioni su cui si inserisce la destra che ormai è disposta a giocare ogni carta pur di rovesciare Allende. Lo sciopero, sconfessato da tutti i settori della sinistra (compreso il Mir), va avanti per oltre due mesi perché il governo, per il timore degli effetti destabilizzanti di una possibile rincorsa salariale, si rifiuta di considerare le richieste degli operai. I quali ricevono invece l’appoggio strumentale della DC e di Patria y Libertad che riescono a trasformare un conflitto sindacale in uno scontro politico fra operai e Unidad Popular.
Verso il golpe disarmando… i lavoratori
Tra la primavera e l’estate del 1973 la crisi cilena evolve rapidamente verso l’epilogo. Per valutare correttamente questo esito è importante tener fermo che il conflitto che oppone la borghesia cilena all’Unidad Popular è subordinato in ultima analisi all’evoluzione dello scontro principale, che resta quello fra la borghesia e il proletariato. In breve, è il fallimento dell’Unidad Popular nel compito di controllare le masse, e non il suo “estremismo”, che fa decidere la borghesia per la “sovversione” e il rovesciamento violento del governo Allende. Questa decisione matura fra la fine dello sciopero dei camionisti (ottobre 1972) e lo scacco del fronte borghese nelle elezioni (marzo 1973). E’ proprio in seguito al fallito paro di ottobre, infatti, che si delinea la combinazione di fattori che porta al golpe. Sul versante dell’Unidad Popular, falliscono sia l’estremo tentativo di “placare” la DC e la borghesia contrattando i “limiti” delle riforme e fornendo ogni sorta di “garanzie” sul terreno istituzionale, sia lo sforzo di bloccare la radicalizzazione delle masse e la tendenza alla loro autorganizzazione indipendente. Sul versante della borghesia, l’esaurimento degli ultimi mezzi “ordinari” per ristabilire la situazione porta alla definitiva unificazione del blocco dominante e al superamento delle residue remore circa la “soluzione finale” da affidare ai militari. In mezzo, si collocano i tentativi dei lavoratori di contrastare le tendenze del “proprio” governo e dei “propri” partiti al ripiegamento e alla resa, di allargare e unificare la rete della propria autorganizzazione, di prepararsi in vista di uno scontro che si annuncia sempre più chiaramente come imminente e decisivo. Ma mentre la controrivoluzione riesce a darsi una strategia, un’organizzazione e una direzione centralizzate, sono proprio questi fattori essenziali che fanno difetto al proletariato cileno nel momento decisivo. Nel maggio del 1973 anche nella DC prevale l’opzione pro-golpista con l’elezione a segretario di Patricio Aylwin, esponente della destra intransigente, e l’approvazione di un documento che impegna il partito a fare ogni sforzo per impedire che il Cile “diventi una dittatura marxista”. Da questo momento la DC assume un ruolo centrale nella preparazione politica del golpe, il cui scopo è delegittimare il presidente Allende e creare il pretesto che giustifichi l’intervento delle forze armate. Fra i militari le posizioni dei “lealisti” sono sempre più precarie (48) e la macchina del golpe è avviata. Agli inizi di giugno un gruppo di sottufficiali e di marinai incontrano i senatori Altamirano, socialista, e Garreton, del Mapu, e Miguel Enriquez, segretario del Mir, a cui forniscono informazioni dettagliate sui cospiratori e i loro piani. Ma l’incontro viene spiato e nelle settimane successive sono incarcerati segretamente per iniziativa della Marina 400 sottufficiali con l’accusa di “cospirazione contro le forze armate”. Benché Allende e il governo siano informati della cosa, nessuno interviene.
Il “Tancazo”
Il 29 giugno si verifica un primo tentativo di sollevazione militare, il “tancazo”. Un reparto di blindati del II reggimento di Santiago penetra nel ministero della difesa e intima la resa alla guardia del palazzo della Moneda. Il tentativo fallisce per il rapido intervento di forze “leali” al governo al comando del generale Prats in persona. La situazione sembra di nuovo sotto controllo del governo. In realtà, come scriverà il generale Pinochet nelle sue memorie, il tentativo fallito è servito come prova generale che ha consentito ai futuri golpisti di verificare l’allineamento delle forze all’interno delle forze armate, di saggiare le capacità difensive del governo e il suo sostegno popolare, di individuare le forze dei cordones industriales e della sinistra pronte a reagire.La reazione popolare è imponente ma le direzioni maggioritarie operano per ricondurla nel quadro della “legalità”, spargendo a piene mani illusioni sulla “lealtà democratica” delle forze armate. Eppure un numero crescente di lavoratori, attraverso i cordones industriales, si pone il problema della costituzione di una milizia operaia e della preparazione della resistenza armata al golpe. Ma i cordones non avranno il modo e il tempo di risolverlo. Per farlo, dovrebbero andare oltre e contro il “loro” governo, pur continuando a difenderlo contro la destra; dovrebbero prepararsi a sostituire le direzioni ufficiali, pur agendo con il massimo di unità d’azione con le masse che ancora ad esse si affidano. Ma affinché i cordones possano svolgere questo ruolo, sarebbe indispensabile la presenza e la battaglia egemonica di un partito come quello di Lenin nel 1917 in Russia. Ma questo partito in Cile non c’è e la strada verso l’ottobre rosso sarà troncata da un settembre nero.
La “Ley de control de armas”
Il governo e l’Unidad Popular, invece, sperano di scongiurare reazioni estreme della classe dominante facendosi carico direttamente delle sue esigenze, anche repressive. Paradigmatica la storia della Ley de control de armas (legge sul controllo delle armi), che sospende l’inviolabilità del domicilio e consente all’esercito perquisizioni senza mandato alla ricerca di armi. Il progetto di legge, presentato dal democristiano Carmona nell’ottobre 1972, non avendo ricevuto il veto del presidente che avrebbe potuto bloccarlo, viene approvato dal parlamento e diventa esecutivo. Il giornale del Partito socialista attribuisce il fatto all’“imperdonabile omissione di qualche funzionario”, ma il funzionario, rintracciato, si difende spiegando che “tanto il presidente Allende che la maggioranza dei parlamentari dell’Unidad Popular consideravano positivo il progetto di legge” (49). Di fatto l’esercito utilizzerà questa legge per scatenare una campagna generalizzata di perquisizioni ed arresti volta a prevenire e a disorganizzare una possibile resistenza operaia (50). Solo pochi giorni prima del golpe, il 7 settembre, durante un’ondata di perquisizioni ai bastioni operai delle fabbriche dell’Area social, fra cui le fabbriche tessili Sumar e Lanera Austral, l’esercito procede alla fucilazione di un operaio. Allende non trova di meglio che convocare i generali per chiedere loro di ordinare ai subalterni di “moderare il proprio impeto” nel corso delle perquisizioni…
L’ultima prova di forza
Il 27 luglio comincia un nuovo sciopero dei trasporti che paralizza il paese. Questa volta, dichiara il capo dei camionisti Leon Villarin, “lo sciopero avrà termine solo dopo la caduta del governo Allende”. Ai primi di agosto, un’assemblea degli ufficiali della guarnigione di Santiago chiede al generale Prats, ministro della difesa, queste misure immediate: un accordo fra il governo e la DC, l’assegnazione delle imprese dell’Area social alle forze armate, la messa fuori legge dei cordones industriales… E’ l’enunciazione del programma dei golpisti nella forma di una sorta di ultimatum al governo. Avrà come risposta, il 23 agosto, le dimissioni del generale Prats dai suoi incarichi di ministro della difesa e di comandante il capo dell’esercito. Sarà sostituito ai vertici delle forze armate dal generale Augusto Pinochet. E’ palese il significato di questo cambio: il prevalere ai vertici delle forze armate dei settori golpisti. Con tutto ciò, Allende e il governo continuano a illudersi e a rassicurare il paese sulla “lealtà democratica delle forze armate cilene”. Ai primi di settembre si uniscono allo sciopero dei camionisti altri settori dei ceti medi: medici, farmacisti, avvocati, commercianti all’ingrosso e dettaglianti. La stampa borghese è scatenata e “El Mercurio” arriva a chiedere al presidente di togliersi di mezzo suicidandosi… Il 4 settembre, terzo anniversario della vittoria elettorale di Allende, si svolgono in tutto il paese enormi manifestazioni di massa. Solo a Santiago scende in strada un milione di lavoratori. E’ una grande prova di forza, ma questa forza non sarà utilizzata e non troverà una direzione alternativa che la orienti all’azione. Ancora oggi fa impressione vedere le fotografie di queste fitte schiere di lavoratori che sfilano armati di… bastoni, perché il governo si rifiuta di consegnare loro le armi che pure essi chiedono con crescente insistenza e consapevolezza di ciò che sta maturando. Il 10 settembre, poche ore prima che il golpe cominci a Valparaiso, il ministro della difesa di UP, Orlando Letelier, convoca una conferenza stampa per annunciare che il presidente ha intenzione di annunciare una “soluzione politica alla crisi” del paese. Si riferisce alla decisione di Allende di chiedere all’elettorato con un referendum se il governo può proseguire o deve dimettersi. Allende in verità pensa di non poter vincere il referendum, la cui convocazione è dunque un modo per uscire di scena in modo “indolore”, preservando una parvenza di “legalità” ed evitando (così valuta Allende) la tragedia del colpo di Stato (51). Si tratta, in buona sostanza, di una dichiarazione di resa di fronte al golpe annunciato. Ma neppure quest’estrema rinuncia sarà sufficiente a fermare i militari; otterrà solo il risultato di far anticipare di qualche giorno la data del colpo di Stato (52).
L’11 settembre 1973
Arriva dunque annunciato, la mattina dell’11 settembre, l’ultimo atto dell’insurrezione militare in atto da tempo. La Junta militar, formata dai capi delle diverse forze armate e dei Carabineros e guidata da Augusto Pinochet, proclama lo stato d’assedio (sarà revocato solo l’11 marzo 1978), chiude il parlamento e proibisce ogni attività politica. Assume tutti i poteri concentrando nelle proprie mani il potere esecutivo, legislativo e costituzionale. Soprattutto si dedicherà per alcuni anni a dare la caccia agli oppositori e ai “comunisti” (53). Si tratta in verità di una “guerra” unilaterale contro la sinistra e il movimento operaio e popolare, un esempio di quel tipo di intervento che la Dottrina della sicurezza nazionale degli Stati Uniti avrebbe successivamente definito, con riferimento specifico ai conflitti in Salvador e Nicaragua negli anni ottanta, “guerra a bassa intensità”. La dittatura militare durerà fino alla fine degli anni ottanta e cercherà non solo di sradicare il movimento operaio ma anche di cambiare in profondità il paese. Riuscendoci. Al punto che a trent’anni di distanza l’eredità del golpe e della dittatura pesa ancora sulla vita politica e sul clima sociale del Cile. Forse il primo segno di rottura in questa interminabile continuità è stato lo sciopero generale che si è svolto lo scorso 13 agosto, il primo dopo la caduta della dittatura (1990). Ma è a suo modo significativo della sconfitta storica subita dal movimento operaio che esso si sia svolto contro un presidente della repubblica, Lagos, che si pretende “socialista”, governa in coalizione con la DC e attua una politica liberista…
La resistenza e la repressione
Purtroppo i dirigenti di UP, prigionieri di una strategia illusoria, non vogliono vedere la minaccia che sta prendendo forma e finiscono per consegnare disarmato il movimento operaio cileno ai suoi carnefici. L’11 settembre trova i militanti di Unidad Popular impreparati ad affrontare il golpe e senza una strategia di riserva. Dispongono, soprattutto la sinistra socialista, di poche armi leggere, quelle utilizzate per la sicurezza dei dirigenti e delle sedi, nulla di fronte ai mezzi dispiegati dalle forze armate. Gli operai di alcune fabbriche e dei cordones industriales della cintura di Santiago resistono con armi leggere e qualche mitragliatrice per alcuni giorni, poi sono sopraffatti. Contribuisce alla sconfitta la decisione della Cut di proclamare lo sciopero generale con occupazione delle fabbriche. Rinchiusi e isolati i lavoratori nei posti di lavoro, i militari non trovano subito una adeguata risposta nelle strade e possono successivamente procedere più facilmente a colpire e a smantellare fabbrica per fabbrica la resistenza di una classe operaia demoralizzata dalla decapitazione della propria direzione e dalla mancanza di ogni informazione. Il Mir dispone di armi leggere e di qualche mitragliatrice, di un minimo di preparazione e di un embrione di struttura militare clandestina. Ma la resistenza a un colpo di Stato non si può improvvisare. Così, dopo un incontro con i dirigenti della sinistra socialista, i suoi dirigenti decidono di riservare le armi per occasioni migliori e danno l’ordine di seppellirle. Nei giorni successivi militanti del Mir tentano alcuni assalti a caserme e a commissariati per recuperare altre armi, ma senza successo. Il Mir è anche l’unica forza che ha cercato in precedenza di fare un lavoro di penetrazione nelle forze armate per conquistare elementi di base e provocarne la disgregazione dall’interno, anche se con risultati ancora limitati; si ha comunque notizia di tentativi di opposizione interna, in particolare nella Marina, stroncati dai comandi con decine di fucilazioni. Ma in sede di bilancio bisogna ammettere che gli episodi di resistenza armata a Santiago e altrove sono stati episodi isolati e destinati alla sconfitta. Non si assiste in Cile a nessuna “guerra civile” – come pretenderà la giunta militare per giustificare la repressione prolungata – ma solo a una guerra unilaterale delle forze armate, sostenute dalla borghesia e dall’imperialismo, contro il movimento operaio e la sinistra.
In effetti, la repressione è stata pianificata con cura. La reazione ha fatto la radiografia delle forze motrici della rivoluzione cilena distinguendo tre gruppi da colpire: 1) “i motori del marxismo”, ossia gli attivisti locali, dei cordones industriales, ecc. iscritti o meno ai partiti, ossia coloro che realmente “muovono il popolo”; 2) “i dirigenti del marxismo”, ossia i quadri politici dell’UP, intellettuali e dirigenti studenteschi; 3) “i dirigenti e i funzionari del governo e i gerarchi dell’UP”. I primi devono essere arrestati e fucilati immediatamente; quelli del secondo gruppo devono essere “arrestati, torturati e condannati a pene di lunga durata”; quelli del terzo gruppo devono essere “detenuti per un certo tempo e poi espulsi dal paese” (54). Si tratta in buona sostanza di un programma di decapitazione della classe operaia, una sorta di “genocidio di classe” volto a distruggere la forza organizzata e la coscienza militante dei lavoratori cileni per decenni. Bisogna purtroppo aggiungere che la dittatura ha sostanzialmente portato a termine questo “sporco lavoro” per conto della borghesia cilena e dell’imperialismo.
Il prezzo della “via pacifica al socialismo”
Difficile dare cifre precise della repressione. Amnesty International calcolava alla fine del 1974 una cifra di 15 mila uccisi, coincidente con quella stimata dai rinchiusi nei campi di concentramento confrontando le informazioni fornite dai prigionieri provenienti da tutto il paese. La Commissione cilena per i diritti umani ha fornito in seguito questi dati: almeno 15 mila assassinati, oltre 2.200 detenuti scomparsi, 155 mila detenuti in oltre 160 campi di concentramento e 164 mila esiliati. Ecco, in cifre, il prezzo della “via pacifica” al socialismo. Una via che invece che al socialismo ha condotto alla facile vittoria di una delle più feroci controrivoluzioni della storia e a un prezzo di sangue senza precedenti per l’avanguardia di uno dei movimenti operai più forti fino ad allora in America latina. Il realtà, le reboanti promesse sul “poder popular” e sulla “partecipazione dei lavoratori al potere dello Stato” hanno nascosto il fatto fondamentale: anche per Allende e l’Unidad Popular, il popolo e i lavoratori non avevano il diritto di armarsi, un privilegio che la costituzione vigente dello Stato (borghese), a cui Allende e l’Unidad Popular si sono sempre attenuti, riservava alla casta militare.
Il “neoliberismo militare”
I teorici liberali, che hanno celebrato trionfi planetari dopo il crollo dello stalinismo, pretendono che esista una stretta associazione fra liberismo economico e democrazia politica, soprattutto che il primo sia una sorta di “base strutturale” e di “garanzia” della seconda, la quale sarebbe in pericolo ogni volta che lo Stato si intromette nel “libero” mercato. L’esempio cileno è la smentita fattuale più clamorosa di queste pretese. Esso mette in luce proprio la relazione opposta: il liberismo economico, per potersi imporre in un paese con un forte movimento operaio, richiede di sopprimere la democrazia politica e di instaurare uno Stato forte, meglio ancora una spietata dittatura militare, allo scopo di controllare o annullare la reazione delle masse sfruttate (55). Così come hanno fatto i militari al potere in Cile dal 1973 al 1990 che, come è noto, hanno adottato alcuni economisti della scuola liberista di Milton Friedman come propri consiglieri economici (i “Chicago boys”). In verità, non sono le idee astratte ma i concreti rapporti di classe instaurati dalla dittatura che spiegano i “successi” economici (molto relativi in verità) del neoliberismo in Cile. Sulla base dell’annichilimento delle organizzazioni dei lavoratori e della confisca di ogni diritto democratico delle masse, il capitalismo cileno ha avuto modo di rilanciare il saggio di sfruttamento della forza lavoro, e dunque dei profitti, a livelli senza precedenti. Lo smantellamento di molte riforme economiche dei governi precedenti (ma non di tutte: la dittatura ha conservato la nazionalizzazione del rame; così, per un paradosso della storia, il rame nazionalizzato dal “comunista” Allende è diventato uno dei pilastri economici della dittatura… (56)), i ponti d’oro al capitale straniero, le privatizzazioni in tutti i settori dell’economia, dalla produzione ai servizi alle assicurazioni sociali, lo smantellamento delle protezioni sociali e delle organizzazioni sindacali e l’ultraflessibilità del mercato del lavoro, hanno consentito una radicale ristrutturazione del “modello” economico cileno (diventato nei decenni successivi un paradigma planetario) e un rilancio per qualche anno dell’accumulazione del capitale a tassi di crescita “asiatici” (57). Senza con ciò sopprimere, anzi accentuando notevolmente, la natura dipendente dell’economia cilena, che ha conosciuto una vera e propria esplosione dell’indebitamento estero (58) e una accresciuta dipendenza dagli alti e bassi dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale e dal sistema monetario e finanziario internazionale.
Un bilancio storico e politico ineludibile
In sede di bilancio storico e politico dell’esperienza di Allende e dell’Unidad Popular, è necessario andare oltre le parole della propaganda di una parte e dell’altra e attenersi ai fatti storici e al concreto agire politico dei soggetti coinvolti. E questi dicono che il governo Allende, fin dalle sue premesse, non si pose sul terreno della transizione al socialismo, fosse pure graduale e pacifica. Il suo orizzonte fu dichiaratamente la modernizzazione delle strutture economico-sociali e la democratizzazione delle strutture politiche del paese entro il quadro borghese.
Una politica di “fronte popolare”
Questo passaggio venne presentato a volte come la precondizione per avviare, in un secondo momento e nel quadro della legalità vigente, una transizione “pacifica, democratica e pluralista” (Allende) al socialismo. Ma anche se questo fosse stato il sincero convincimento di Allende e di una parte dei gruppi dirigenti dell’Unidad Popular, ciò non contraddice e non contrasta con la qualificazione dell’Unidad Popular come una variante delle politiche di “fronte popolare”, una formula politica che il movimento operaio internazionale, egemonizzato dallo stalinismo e dalla socialdemocrazia, aveva già sperimentato più volte, e sempre con esiti negativi, se non catastrofici, dalla metà degli anni trenta in poi (59). Senza dubbio l’azione riformista del governo Allende fu senz’altro ampia e per certi aspetti radicale quanto quella di nessun altro governo nel quadro del sistema. Ma questo impegno riformatore si fermò davanti alla sacralità dello Stato borghese, della sua legalità e delle sue istituzioni. Allende non mise mai in discussione l’assoluta preminenza delle istituzioni statali borghesi e arrivò a fare concessioni su concessioni alla borghesia e ai militari su questo terreno, mentre cercò di frenare l’iniziativa dei lavoratori che autonomamente cercavano di costruire organismi di tipo nuovo che potevano rappresentare un “pericoloso” dualismo di poteri.
Le ragioni del golpe
Tuttavia, né le rassicurazioni verbali, né le garanzie politiche offerte da Allende furono abbastanza per la borghesia cilena (e per l’imperialismo nordamericano). La vera colpa di Allende e del governo di Unidad Popular fu quella di aver provocato in Cile una crisi rivoluzionaria che rischiava di sfuggire al loro controllo e di aprire le porte a una vera rivoluzione sociale. E qui sta il punto: l’11 settembre 1973 i carri armati di Pinochet non si mossero solo per rimuovere il presidente socialista ma soprattutto per schiacciare una classe operaia che aveva alzato troppo la testa, che aveva umiliato la borghesia durante il paro dell’ottobre 1972, che dimostrava di voler andare oltre i limiti fissati dal governo e di essere in grado di realizzare trasformazioni politiche e sociali rivoluzionarie. Questo era intollerabile per la borghesia cilena e per l’imperialismo nordamericano. La moderazione e la volontà di collaborazione di classe non bastarono ad Allende per salvare le riforme e la democrazia. Al contrario, quella politica e la fiducia nella “lealtà democratica” delle forze armate, contribuirono al disastro: consentirono ai militari e all’imperialismo di preparare indisturbati la controrivoluzione, consegnarono disarmati – in senso metaforico e in senso letterale – i lavoratori e il popolo cileno ai propri massacratori. Prepararono insomma la strada a una delle più grandi tragedie del movimento operaio in America latina e nel mondo.
Il fallimento della “via pacifica”
Alla luce di tutto questo, la valutazione da dare dell’esperienza di Allende e dell’Unidad Popular è chiara: si è trattato non tanto e non solo di una drammatica sconfitta, quanto e soprattutto del tragico fallimento di una strategia politica. Allende e l’Unidad Popular avevano promesso di trasformare il paese attraverso una via pacifica e democratica, anche se più lunga e graduale. In questo senso l’Unidad Popular cilena fu effettivamente la prova del nove del riformismo. Questa prova è fallita. Eppure le masse cilene avevano dimostrato di avere le forze, la volontà e la determinazione per un altro sbocco. Stavano cercando, confusamente, di costruire un altro potere, erano pronte a molti sacrifici per difendere i cambiamenti che il governo aveva varato e per altri ancora più radicali. Solo pochi giorni prima del golpe un milione di lavoratori era sceso in piazza a Santiago e altre centinaia di migliaia in tutto il paese, e molti chiedevano al “proprio” governo le armi per difendersi. Ma non furono ascoltati. Una rivoluzione che si ferma a metà strada si scava la fossa con le proprie mani. Questo è l’insegnamento della tragedia cilena. Ma per condurre una rivoluzione fino in fondo non basta l’azione spontanea delle masse. Occorre che essa sia coordinata, unificata, resa consapevole ed efficace da una strategia e dunque da una direzione politica che non la voglia frenare o deviare ma guidare, stimolare, portare a compimento. In altre parole, non ci può essere una rivoluzione vittoriosa senza un partito rivoluzionario radicato nelle masse, sperimentato, capace di conquistare la maggioranza dei lavoratori alla prospettiva della conquista del potere. Questo è mancato in Cile trent’anni fa. Ma questa non è una lezione che riguarda solo il Cile. E’ un insegnamento di cui occorre facciano tesoro tutti coloro che si propongono di cambiare il mondo. Perché un mondo diverso sia davvero possibile.
Note
(1) Su questo aspetto si veda l’articolo di Marco Ferrando “Il compromesso storico nella storia del PCI, il mito e la realtà”, in Marxismo Rivoluzionario n.2 ottobre-dicembre 2003
(2) “Alleanza per il progresso” si autodenominò la politica riformista promossa da Kennedy in America latina, con cui gli Usa cercarono di neutralizzare l’influsso della rivoluzione cubana sulle masse popolari del continente modernizzando gli assetti sociali e allargando le basi sociali del potere.
(3) Prima di sostenere Allende, il PC aveva proposto alla DC di sostenere un comune candidato indipendente e vi aveva rinunciato solo dopo il rifiuto di quest’ultima (Luis Vitale, Interpretacion marxista de la Historia de Chile, vedi bibliositografia).
(4) Nelle sue Memorie Kissinger ricorda che a Frei furono concessi 40 milioni di dollari nel 1969 e 70 milioni nel 1970.
(5) Le condizioni d’acquisto delle azioni dell’Anaconda sono più che favorevoli per la multinazionale. Esse prevedono che il prezzo del 51% delle azioni sia calcolato comprendendo il valore dei giacimenti (cioè del sottosuolo cileno) e un rendimento particolarmente elevato; che l’indennizzo sia versato in 12 anni; che per il restante 49% delle azioni, da acquisire a partire dal 31 dicembre 1973, sia pagato un prezzo tre volte superiore a quello del 51% iniziale. A queste condizioni le compagnie americane avrebbero ottenuti in pochi anni 4.500 milioni di dollari di utili, ossia 1.000 milioni di dollari in più di quelli che avevano ricavato nel precedente mezzo secolo di sfruttamento! (Luis Vitale, op. cit.).
(6) “In sintesi, questa riforma agraria, sostenuta dall’Alleanza per il progresso, fu importante per il processo sociale che aprì nelle campagne, ma limitata circa le trasformazioni radicali della struttura agraria. In ultima analisi la distribuzione delle terre incolte aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo del capitalismo agrario e di accrescere la produzione agropastorale, nel tentativo di ampliare il mercato interno per l’industria dei beni di consumo, nonché di canalizzare l’ascesa del movimento contadino creando una sorta di ammortizzatore sociale mediante i piccoli proprietari beneficiati dalla distribuzione delle terre.” (Luis Vitale, op. cit.).
(7) Mentre il 50% dei proprietari possiede meno di 5 ettari pro capite e complessivamente meno dell’1% delle terre, meno del 2% dei proprietari, possiede fondi superiori ai 1.000 ettari e detiene complessivamente il 72% dei terreni coltivabili (Luis Vitale, op. cit.).
(8) Alla fine del 1969 hanno avuto la terra solo 17.400 famiglie, su un totale di circa 100.000 che il governo si è ripromesso di soddisfare; sono state espropriate poco più del 10% delle superfici e il latifondo resta largamente dominante (Luis Vitale, op. cit.).
(9) Da 24 sindacati con 1658 affiliati nel 1964 a 394 sindacati con 103.644 associati nel 1969.
(10) Si passa da 723 scioperi nel 1965 a 1.142 nel 1967 a 1.939 nel 1969 (con 230.725 lavorati coinvolti) a 5.295 nel 1970 (con 316.280 lavoratori partecipanti).
(11) Non mancarono gli episodi sanguinosi, come gli 8 morti della repressione dei minatori di El Salvador del marzo 1966, o gli 11 uccisi fra i pobladores di Puerto Montt nel 1969, o l’utilizzo su larga scala dell’esercito contro scioperi o proteste contadine, come nel novembre del 1967.
(12) Nel giugno 1967 gli studenti occupano a Valparaiso l’Università cattolica; il movimento si estende a Concepcion e a Santiago, dove nell’agosto del 1968 studenti del Movimiento Iglesia Joven occupano la cattedrale chiedendo una maggiore attenzione da parte della chiesa per i poveri e gli oppressi.
(13) Un opuscolo della destra descrive Frei come “il Kerensky cileno” (Luis Vitale, op. cit.).
(14) “Non vedo perché dobbiamo starcene qui a vedere come un paese diventa comunista per colpa dell’irresponsabilità del suo popolo”, dichiara il 27 giugno ‘70 il segretario di Stato Henry Kissinger a una commissione speciale del Consiglio nazionale per la sicurezza degli Stati Uniti.
(15) Sul Mir si veda l’articolo dedicato ad esso in questo stesso numero di “Mr”.
(16) Sulla storia e la politica del PC cileno si può vedere Nicolás Miranda, Historia marxista del Partido Comunista de Chile (1922-1973), al sito www.clasecontraclase.cl.
(17) Quest’ultimo diventerà ministro della giustizia nel governo Allende, salvo passare dalla parte della controrivoluzione progolpista nell’ottobre 1972.
(18) Lo si può leggere e scaricare alla pagina: http://www.salvador-allende.cl/Textos/Documentos/programa.htm.
(19) Il programma dell’UP prevedeva la nazionalizzazione (con indennizzo) delle risorse minerarie in mani straniere e dei settori strategici per lo sviluppo del paese: le miniere di rame, salnitro, ferro e carbone; le banche e le assicurazioni; il commercio estero; le grandi imprese e i monopoli della distribuzione; i monopoli industriali in settori come la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica; i trasporti ferroviari, aerei e marittimi; le comunicazioni; la produzione e la raffinazione del petrolio e dei suoi derivati; la chimica pesante e la petrolchimica; la siderurgia, le industrie del cemento, della cellulosa e della carta; tutte queste imprese avrebbero dovuto confluire nell’Area de Propietad Social (Aps) che sarebbe diventata il cuore del sistema di pianificazione economica nazionale. Si prevedeva inoltre, accanto all’Aps e al settore privato, la creazione di un terzo settore denominato Area mixta, costituito da imprese con capitali privati e pubblici.
(20) La formula “Stato popolare”, che allude a istituzioni neutrali al di sopra delle classi, è di per sé una negazione del marxismo, come sa chiunque abbia letto gli scritti di Marx e di Engels, in particolare le “critiche” ai programmi socialdemocratici di Gotha e di Erfurt, o di Lenin, in particolare Stato e rivoluzione; si tratta in ultima analisi di una formula mistificante e irrealistica, che ipotizza la possibilità di piegare le istituzioni “realmente esistenti”, cioè borghesi, a fini opposti a quelli per cui esse esistono e agiscono (la tutela e la conservazione del dominio della classe dominante); un’ipotesi che proprio la vicenda cilena ha dimostrato tragicamente illusoria.
(21) Tutto il discorso del poder popular, già confuso nelle premesse teoriche e nelle formulazioni, non avrà comunque seguito se non nella propaganda. Sarà accantonato ancor prima dell’insediamento di Allende, durante la trattativa con la DC per l’Estatudo de garancias. I 20 mila comitati di Unidad Popular nati in tutto il paese durante la campagna elettorale vengono sciolti tre settimane dopo le elezioni, come segno di buona volontà, accogliendo una precisa richiesta in tal senso della DC. Quando nell’aprile del 1971 l’Unidad Popular ottiene la maggioranza assoluta nelle elezioni amministrative, i suoi dirigenti si guardano bene dal convocare il referendum che dovrebbe istituzionalizzare il poder popular. Sono queste scelte concrete, più che la carta scritta, a chiarire la vera ispirazione dell’UP: la volontà di preservare il quadro statale esistente come terreno d’intesa con la classe dominante. In questo senso, la strategia dell’Unidad Popular non è che una variante delle politiche di “fronte popolare”. Anche se non tutte le sue componenti concordavano con questa qualificazione, essa era invece pienamente accolta dal PC, che ne era l’ispiratore e che si muoveva dentro agli schemi dello stalinismo; non a caso, il PC aveva cercato e cercherà costantemente di allargare l’accordo alla stessa DC.
(22) Salvador Allende Gossens ha allora 61 anni, proviene da una famiglia alto borghese di Valparaiso di tradizioni progressiste e massoniche, è medico ed è stato nel 1933 tra i fondatori del Partito socialista. Dal 1939 al 1942 è stato ministro della sanità nel governo di fronte popolare del radicale Aguirre Cerda. Nel 1945 è stato eletto senatore. Il profilo politico di Allende è quello di un socialista vecchio stampo che si è sempre battuto per l’unità con il PC. Professa una fede incondizionata nella prospettiva della trasformazione socialista del Cile per via pacifica, gradualista e parlamentare, nel pieno rispetto della legalità costituzionale, e fino all’ultimo si illuderà sull’esistenza di una analoga lealtà nei vertici delle Forze armate cilene.
(23) Vale la pena di ricordare che il PC avrebbe voluto cercare un accordo fra l’UP e la DC su un candidato indipendente. Anni dopo, lo stesso Carlos Altamirano, all’epoca dirigente della sinistra socialista, dichiarerà che la sinistra arebbe dovuto cercare un accordo programmatico con la DC e sostenere Tomic (Luis Vitale, op. cit.).
(24) Salvador Allende ottiene il 36,3% (1.075.616 voti), contro il 35,0% di Alessandri (1.036.000 voti) e il 27,8% di Tomic (824.849 voti). Allende vince nettamente nel voto maschile (in Cile uomini e donne votano separatamente), in quello femminile prevale Alessandri mentre i suffragi per Tomic sono quasi pari a quelli per Allende. Il candidato socialista trionfa nel Nord, a Concepcion, secondo centro industriale del paese, nelle aree a forte concentrazione operaia e di lavoratori delle miniere; Alessandri prevale invece a Santiago e nel Sud rurale; Tomic vince a Valparaiso e ottiene i migliori risultati nelle circoscrizioni a forte presenza contadina ma anche in alcune zone operaie (Luis Vitale, op. cit., e Luis Vitale, Y despes 4, ¿que?).
(25) Il quadro parlamentare condizionerà in seguito l’azione di Allende come presidente. Pur essendo il Cile una repubblica presidenziale e avendo il predecessore di Allende, Eduardo Frei, rafforzato i poteri presidenziali, il parlamento manteneva la facoltà di sconfessare i progetti di legge del governo e di ricusare il capo dello Stato e i suoi ministri; fuori dal controllo del presidente restava anche la Contraleria Generale de la Republica, che aveva la supervisione sugli atti amministrativi dell’esecutivo e della magistratura. Alla luce di questi vincoli politico-istituzionali (e di quelli introdotti successivamente con lo Statuto delle garanzie preteso dalla DC) risulta ancora più utopistica la convinzione di Allende e dell’UP circa la centralità della presidenza della repubblica e delle istituzioni statali come leve di un processo di trasformazione sociale.
(26) Anche Alessandri si esprime in modo analogo fin dal primo momento in cui sono resi noti i risultati elettorali (Luis Vitale, op. cit.).
(27) Sono molto significative le parole usate dal generale Schneider in un vertice delle Forze armate per spiegare perché il Congresso deve ratificare l’elezione di Allende: “Le Forze armate non possono impedire adesso… i cambiamenti. Una parte molto importante dei cileni non è disposta a farsi sottrarre un trionfo elettorale che pensa potrà cambiare la sua vita… Il signor Allende ci ha dato assicurazione che si atterrà alla Costituzione e alle leggi… Il senatore mi ha detto personalmente un’altra cosa su cui sono d’accordo con lui: in questo momento un governo come quello di Allende è l’unico tipo di governo che può impedire che scoppi un’insurrezione popolare violenta… Le Forze armate, che sono la garanzia che questa società continui ad essere occidentale e cristiana, devono aspettare e vedere quello che accadrà. Il futuro ci dirà se dovremo intervenire per rimettere le cose a posto o se il signor Allende manterrà il suo impegno di calmare l’inquietudine popolare e di impedire l’insurrezione dei non possidenti.” (in Luis Vega, La Caída de Allende, citato da M. Novello, art. cit.).
(28) Non così i mandanti… Il diretto coinvolgimento della Cia, in questo e in successive azioni di terrorismo o di provocazione, è stato ormai ampiamente provato, oltre che da diverse inchieste giornalistiche, anche dalla pubblicazione di tutta una serie di atti ufficiali del governo americano desecretati dopo il ‘98. In proposito vedere il sito www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB8/nsaebb8i.htm.
(29) “Il condizionamento a cui si era sottomesso lo schieramento di maggioranza relativa conteneva un punto di estrema gravità per il futuro del paese: il concetto di “autonomia” delle Forze armate, che non si trova nella Costituzione del 1833 né nella Costituzione del 1925 in vigore. Questa esigenza venne così motivata dalle massime autorità della DC: “Ci interessa che le Forze armate e il corpo dei Carabineros continuino ad essere una garanzia della nostra convivenza democratica. Ciò esige che si rispettino le strutture e le gerarchie delle Forze armate e del corpo dei Carabineros, i sistemi di selezione, i requisiti e le norme disciplinari vigenti, che si assicurino ad esse una equipaggiamento adeguato alla loro missione di vegliare sulla sicurezza nazionale, che non si utilizzino i compiti di partecipazione che si esigono da esse per lo sviluppo nazionale per farle deviare dalle loro funzioni specifiche e che non si compromettano i loro bilanci”. Questo punto… fu presentato sotto forma di riforma costituzionale e approvato il 22 ottobre 1970… Questa fu la giustificazione che si utilizzò per effettuare il colpo di Stato militare contro il governo Allende.”
(Luis Vitale, op. cit.).
(30) Il lettore può fare facilmente il confronto con il primo anno della presidenza Lula in Brasile: tale confronto è tutto a favore di Allende. Ciò illustra la differenza abissale che passa fra un governo effettivamente riformatore, quale fu certamente, all’inizio, quello di Allende, e un governo neoliberale, cioè nei fatti controriformatore, quale è quello di Lula.
(31) Durante il periodo dell’Unidad Popular i salari reali aumentarono complessivamente in misura superiore al 50%.
(32) La portata di questo “sconto” è in verità senza proporzione con gli utili effettivamente realizzati dalle multinazionali; solo i profitti esportati dal 1952 al 1970 ammontano a qualcosa come 16 miliardi di dollari, la riduzione degli indennizzi non arriva in tutto al miliardo…
(33) Queste 202 imprese manifatturiere rappresentavano solo il 3% del totale, ma occupavano 116 mila lavoratori, pari al 20% della manodopera industriale.
(34) Si consideri anche che le terre espropriate e distribuite erano in generale quelle meno produttive e mancavano di macchine e infrastrutture; in molti casi, poi, per sfuggire all’esproprio, gli allevatori ricorrevano all’abbattimento delle mandrie o al loro espatrio clandestino in Argentina. Con tutto ciò, in un documento del 1980 della Banca mondiale si dice che la riforma agraria cilena cominciò a dare i suoi frutti dalla stagione 1973-74; lo stesso documento osserva inoltre che, “anche nei momenti più turbolenti, la riforma fu realizzata con una ammirevole assenza di violenza e di distruzioni di beni.” (citato da J. Cademartori, vedi bibliositografia).
(35) Su tutto ciò si veda anche quanto già pubblicato nello speciale Cile su “Progetto comunista” dell’ottobre 2003.
(36) Fra il novembre del 1970 e l’agosto del 1971 il governo Allende pagò per indennizzi 400 milioni di dollari alle banche, 576 milioni alle multinazionali del ferro e del salnitro, 320 milioni ai latifondisti, 600 milioni per le imprese acquisite all’area sociale, e 8.830 milioni alle multinazionali statunitensi Anaconda e Kennecott, già proprietarie delle miniere di rame.
(37) In un anno le riserve valutarie passarono da 343 a 32 milioni di dollari; i crediti esteri passarono da 300 milioni all’anno dell’era Frei a meno di 30; le importazioni di macchinari industriali caddero del 22%, la fuga dei capitali superò gli 87 milioni di dollari…
(38) Il costo della vita aumentò del 78% nel 1972 e del 188% nei primi 9 mesi del 1973. Per un confronto si consideri comunque che la liberalizzazione dei prezzi subito attuata dalla dittatura fece esplodere l’inflazione nel dicembre 1973 al 1100%!
(39) Ciò ha spinto molti a parlare, non del tutto a sproposito, di pericolo del fascismo in Cile, per analogia con quanto è accaduto negli anni venti in Italia e trenta in Germania. Ci si può chiedere se una dinamica di questo tipo sia inevitabile, soprattutto nei suoi sbocchi ultimi: la contrapposizione della piccola borghesia al proletariato fino al punto di sostenere un regime di violenza terroristica antioperaia a tutto vantaggio del grande capitale. La risposta è “no”. Analizzando l’ascesa del fascismo negli anni trenta, Trotsky ha messo in luce come, nel quadro di una crisi rivoluzionaria, i vari settori della piccola borghesia sono molto incerti sulla posizione da assumere e tendono a schierarsi con la parte che dà l’impressione di poter prevalere. Ciò significa che una politica decisa delle forze proletarie ha la possibilità di conquistare a una ipotesi rivoluzionaria anticapitalistica strati decisivi dei settori intermedi della società. Per altro, la stessa vicenda cilena conferma la validità di questa analisi: in un primo tempo ampi settori piccolo borghesi guardarono con simpatia al governo di sinistra, come mostrano gli stessi risultati elettorali; successivamente, una parte di questi (minoritaria, comunque) si passivizzò, o passò con la destra di fronte ai dietrofront e alla paralisi del governo dell’Unidad Popular. Va detto anche che nella situazione cilena molte mobilitazioni della piccola borghesia erano incoraggiate e direttamente organizzate e finanziate dalla borghesia e dall’imperialismo tramite i mass media e i molteplici canali attivati dalla Cia.
(40) Mike Gonzales, Revolutionary Rehearsals, citato da M. Novello, vedere la bibliositografia.
(41) Secondo dati riferiti nel sito internet del Partito comunista cileno (www.pcchile.cl), delle 35 mila fabbriche e officine del paese solo una ventina sono completamente paralizzate; dei 5 mila asentamientos agricoli se ne fermano meno di un centinaio.
(42) In Luis Vega, La caída de Allende; citato in M. Novello, op. cit.].
(43) Ai dirigenti dell’Unidad Popular, euforici per la “vittoria” sullo sciopero dei camionisti, un militare in pensione dà questo avvertimento: “Vi sbagliate, è stato il popolo a vincere, non voi… Ma ci sarà un nuovo sciopero come questo, e non lo vincerà il popolo; prima sarà intimorito e disorganizzato. E quello sciopero sarà l’ultimo…”.
(44) Documento citato da M. Novello, op. cit.).
(45) Michel Silva, Los cordones industriales y el socialismo desde abajo; riferito da Nicolás Miranda, Los cordones industriales, la revolución chilena y el frentepopulismo, in “Estrategia Internacional”, n. 16.
(46) Settori avanzati si stavano incamminando su questa strada. Ecco l’appello lanciato del cordon Cerrillos: “La Direzione del cordon Cerrillos chiama i lavoratori di Santiago a costituire subito un coordinamento organico:
“1) invitiamo tutti i lavoratori a costituire le proprie Direzioni o Coordinamenti industriali di cordones, l’unico modo per la classe operaia per disporre di uno strumento d’azione efficace, capace di mobilitarla e di farle assumere nuovi compiti. Non ci attendiamo una risposta ai nostri problemi dall’attuale direzione della Cut, dal momento che ci ha dimostrato di essere estranea alle reali aspirazioni della classe operaia in questo momento;
“2) invitiamo le direzioni dei cordones industriales di Santiago a costruire al più presto il comando provincial (direzione provinciale) dei cordones industriales;
“3) invitiamo tutti i lavoratori del Paese a costruire i propri comandos provinciales dei lavoratori, per giungere rapidamente a costituire il coordinamento nazionale di questi comandos provinciales.” (Miguel Silvia, Los cordones industriales y el socialismo desde abajo).
(47) Intanto a marzo, nelle elezioni per il rinnovo del Congresso, l’opposizione borghese, che si era presentata unita nella lista Confederacion Democratica e contava di conquistare più dei due terzi dei seggi, cosa che le avrebbe consentito di destituire il presidente per vie legali, incassa un altro scacco: l’Unidad Popular ottiene il 44% dei voti, la più alta percentuale mai riportata dalla sinistra in Cile in un’elezione politica. E’ probabilmente in questo momento che l’imperialismo e la destra cominciano il conto alla rovescia del colpo di Stato militare.
(48) Un episodio sintomatico: il generale Prats viene fischiato nel corso di un incontro con gli ufficiali della regione di Santiago.
(49) In Luis Vega, op cit.; riferito da M. Novello, op. cit.
(50) Nell’agosto del 1977, in occasione del suo primo comitato centrale dopo l’instaurazione della dittatura, il PC cileno si “autocriticò” per la “mancanza di una sicura politica militare” nel corso dell’UP; ma il riferimento non è alla mancanza di una politica per disarticolare dal basso e dall’interno le forze armate della borghesia, ma alla mancanza di un’iniziativa per ingraziarsi i vertici delle stesse…
(51) Questa interpretazione dell’estrema mossa di Allende viene oggi confermata dall’allora segretario del PC cileno Luis Corvalan.
Si veda l’intervista al “Corriere della sera” del 9 settembre 2003.
(52) I primi a essere messi al corrente delle intenzioni di Allende furono gli stessi golpisti, dal momento che il presidente aveva informato Pinochet della sua decisione già il 9 mattina. Questo dettaglio apparentemente di scarsa importanza conferma che l’obiettivo del golpe non era tanto rimuovere Allende quanto stroncare la rivoluzione.
(53) Dieci mesi dopo, ecco cosa dice il ministro degli interni della giunta militare (“El Mercurio” del 16 luglio 1974): “Nel paese esiste un governo militare e una situazione di stato d’assedio e di guerra interna.” (Luis Vitale, cit. op.).
(54) J. Garcés e Saul Landau, Orlando Letelier: Testimonio y Vindicación (citato da M. Novello, op. cit.).
(55) Con riferimento al regime di Pinochet molti hanno utilizzato correntemente la categoria di “fascismo” ma, al di là di molte affinità nei metodi di esercizio della repressione, si tratta di una assimilazione impropria, politicamente fuorviante. In realtà la giunta militare cilena non ha mai cercato di creare un vero e proprio movimento politico o un partito di massa ideologicamente definito attorno a sé. Ha ovviamente ricevuto il sostegno delle forze fasciste cilene, molto attive contro l’UP, ma complessivamente secondarie nel quadro del dominio militare. Soprattutto, è stata spinta a prendere il potere e ha esercitato per alcuni anni una dittatura feroce e totalitaria dalla borghesia cilena e dall’imperialismo nordamericano, non da un movimento di massa reazionario della piccola borghesia. Viceversa, la creazione di un movimento di questo tipo è stata per certi aspetti sollecitata e utilizzata come alibi per giustificare l’assunzione del potere da parte dei militari.
(56) Le entrate statali del rame nazionalizzato ammontarono a 20 miliardi di dollari nel decennio 1974-84!
(57) Il prezzo sociale di questi “successi” è stato ovviamente meno pubblicizzato: in realtà il Cile ha conosciuto inizialmente alcuni anni di iperinflazione e recessione (1974-76), una caduta del 50% dei salari reali e una disoccupazione superiore al 20% della forza lavoro fino alla metà degli anni ottanta; le ricette liberiste hanno inoltre prodotto un gran numero di fallimenti fra i piccoli produttori e i contadini, la formazione di un ampio settore informale e di un esteso esercito di lavoratori precari, soprattutto donne, nelle città e nelle campagne…
(58) Da 4 miliardi di dollari nel ’73 a 15 miliardi di dollari nel ’85.
(59) Allende, in una famosa intervista concessa a Regis Debray nel dicembre del 1970, negava che l’Unidad Popular fosse un fronte popolare, con l’argomento che non subiva l’egemonia di un partito borghese (come l’alleanza degli anni trenta) ma vi dominava l’egemonia dei partiti operai e il suo fine era il socialismo (Regis Debray, La via cilena, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 79-80 e 117-119). Pur negando che l’UP mirasse al socialismo, anche Luis Vitale afferma (nel 1995) che l’Unidad Popular non fu un fronte popolare perché essa era egemonizzata dai partiti di sinistra e il partito radicale vi aveva un ruolo marginale (Luis Vitale, op. cit.). Ma la natura di fronte popolare non dipende dal ruolo che in una coalizione gioca effettivamente un partito o un settore della borghesia ma dal fatto che le direzioni operaie ricerchino con essi un accordo di fatto, limitando al quadro borghese la portata della propria azione. Su questo punto Trotsky ha messo in luce già negli anni trenta che, di fronte all’ascesa delle masse e alla “fuga” della borghesia dal fronte popolare che ne segue, i gruppi dirigenti riformisti sono disposti a cercare un accordo e ad allearsi persino “con l’ombra della borghesia”, ossia con partiti borghesi di secondo piano (tale era il Partito radicale in Cile alla fine degli anni sessanta), pur di non sconfessare una politica che è, per l’essenziale, volta a mantenere entro il quadro dello Stato borghese l’azione del movimento operaio in un contesto di radicalizzazione delle masse. L’egemonia dei partiti di sinistra nel fronte popolare cileno non cambia la sostanza delle cose. D’altro canto, si può immaginare una dimostrazione più chiara e definitiva della natura di fronte popolare del governo di UP della sua ricerca, spasmodica dalla metà del 1972, di un accordo con la DC, o il coinvolgimento nel governo addirittura dei vertici delle forze armate? Chi rappresentavano e per conto di chi agivano i generali e gli ammiragli, se non della classe dominante?
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CILE, 11 SETTEMBRE 1973. LA TRAGEDIA DEL RIFORMISMO
In occasione del 50esimo anniversario del golpe militare in Cile, pubblichiamo due importanti testi relativi a quei giorni e ai mesi immediatamente precedenti, quelli del governo Allende. Un governo di fronte popolare (cioè di alleanza tra proletariato e borghesia) che ha portato ad una delle più reazionarie dittature del secolo scorso, quella del generale Pinochet. Al governo di Unidad Popular guidato da Salvador Allende guarda ancora oggi buona parte della sinistra riformista, non rendendosi conto che, al di là del volenteroso impegno dei suoi rappresentanti, quell’esperienza non poteva che finire male se non si fosse andati fino in fondo nel cambio di regime (inteso come regime capitalista). Allende (un sincero democratico) e soprattutto il Partito Comunista Cileno non seppero cogliere quella sfida e la storia è poi nota. In particolare, il Partito Comunista Cileno, anch’esso oggi riabilitato da tanti compagni, si rese complice, come quasi tutti i partiti comunisti ufficiali nel mondo, della repressione e di una funzione controrivoluzionaria e di collaborazione di classe che, ad esempio, in Italia ha significato il “Compromesso Storico” con la DC e in Cile la dittatura sanguinaria dei militari di Pinochet.
Il primo degli articoli che presentiamo, a firma del mai troppo compianto compagno Tiziano Bagarolo, compie un’analisi approfondita di quegli eventi, delle responsabilità in campo, dei rapporti tra le classi e della tragedia del golpe cileno.
CILE, 11 SETTEMBRE 1973. LA TRAGEDIA DEL RIFORMISMO
Bilancio storico e politico dell’esperienza di Allende e del governo di Unidad Popular
di Tiziano Bagarolo
La Moneda in fiamme. Fonte: sito web Historia Polìtica della Biblioteca del Congresso Nazionale Cileno, sotto licenza CC Attribution 3.0 Chile
L‘ “altro” 11 settembre
Trent’anni fa (oggi cinquanta) in Cile, l’11 settembre del 1973, un colpo di Stato militare di inaudita violenza, ispirato e preparato con la collaborazione della Cia, rovesciava il presidente eletto Salvador Allende e il legittimo governo dell’Unidad Popular e istaurava una dittatura feroce e totalitaria. Il golpe cominciò all’alba nella città portuale di Valparaiso. Si mosse per prima la Marina, secondo i piani prestabiliti, occupando il porto e la città. Informato di questi sviluppi, Allende si precipitò alla Moneda, il palazzo presidenziale nel centro di Santiago. Si rivolse attraverso la radio ai cileni e in particolare ai lavoratori per invitarli alla vigilanza e alla fermezza. Eppure mostrava ancora di prestar fede alle rassicurazioni appena ricevute da Pinochet che negava il coinvolgimento dell’Esercito nella sedizione. Solo alle 9 meno un quarto, quanto ormai anche la Moneda era circondata dai carri armati dell’Esercito e la Forza aerea si apprestava a bombardare il palazzo, Allende si arrese all’evidenza. A questo punto, con coraggio e dignità, dopo aver rifiutato la proposta dei golpisti di un salvacondotto per lasciare il paese, il compañero Presidente, armi alla mano, si apprestò a resistere e a morire, per dare una lezione morale ai generali “codardi, felloni e traditori”. Se la sorte di Allende si compì in poche ore – e non è molto importante stabilire se si suicidò per non cadere nelle mani dei militari o fu da questi “suicidato” –, annientare l’avanguardia di quella classe operaia che aveva osato troppo, per spezzare la volontà di resistenza delle masse, richiese invece molto più tempo e una barbarie confrontabile a quella del regime nazista o di quello franchista negli anni trenta del secolo scorso. Al riparo di uno stato d’assedio durato quasi cinque anni, in Cile furono uccisi, imprigionati, torturati, fatti scomparire, licenziati, esiliati (e perseguitati anche all’estero dalla famigerata polizia segreta del regime) migliaia e migliaia di quadri e attivisti della sinistra e delle organizzazioni popolari. Si aprirono in Cile 160 campi di concentramento e i primi furono gli stadi. Putroppo i “gorilla” di Santiago e i loro mandanti raggiunsero i loro obiettivi. Il movimento operaio cileno fu rimandato indietro di decenni. Ciò consentì un radicale esperimento “neoliberista” che avrebbe cambiato in profondità il paese e sarebbe diventando un “modello” ben oltre l’America latina. Ancora oggi, a tredici anni dalla fine del regime militare, la cosiddetta “democrazia” cilena è posta sotto la tutela dei militari al punto che non è ancora possibile perseguire e punire i crimini della dittatura. Eppure il governo di Allende era tutto fuorché un governo rivoluzionario. Si era insediato attraverso regolari elezioni e il voto del parlamento. Agiva nel pieno rispetto della costituzione. Cercava costantemente accordi con l’opposizione borghese e in particolare con la Democrazia cristiana. Le principali riforme che stava attuando erano la riforma agraria che era stata deliberata dal precedente governo democristiano e la nazionalizzazione delle miniere del rame in mano alle multinazionali nordamericane che era stata votata dal parlamento all’unanimità! Addirittura, per ulteriore garanzia, Allende aveva fatto entrare nel governo i massimi rappresentanti delle Forze armate alle quali non aveva lesinato autonomia e privilegi. Il governo della Unidad Popular era insomma un governo di collaborazione di classe, non si proponeva di costruire il socialismo espropriando la borghesia e togliendole il potere statale, ma soltanto di modernizzare le strutture economiche e sociali del paese e di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle masse popolari che erano ancora quelle tipiche di un paese arretrato e dipendente del terzo mondo. Il modello politico che l’Unidad Popular cercava di applicare era il “fronte popolare”, ossia un’alleanza delle forze operaie con settori pretesi “avanzati” della classe dominante allo scopo di realizzare un programma di riforme democratiche, non di realizzare il socialismo. Perché allora un tale esito? Perché una repressione così spietata e una dittatura così prolungata? Che cosa è accaduto perché un movimento operaio in grado di conquistare il governo del paese subisse una così improvvisa e tragica disfatta? Rispondere a queste domande significa ricostruire e fare il bilancio di un’esperienza storica di grande significato, e non solo per il movimento operaio cileno o latinoamericano. In Italia, come è noto, la tragedia cilena fornì lo spunto all’allora segretario del Pci per teorizzare il “compromesso storico”, ossia la ricerca di accordo organico con il principale partito della classe dominante (1). Cercheremo di rispondere a questi interrogativi nelle pagine che seguono, ricostruendo l’origine, gli sviluppi e lo sbocco finale della crisi rivoluzionaria vissuta dal Cile tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta del secolo scorso. E cercando, dopo la ricostruzione storica, di fare il bilancio politico e storico della vicenda di Allende e dell’Unidad Popular.
Una crisi che matura da un decennio
L’esperienza dell’Unidad Popular si sviluppa sulla sfondo di eventi sia interni sia internazionali di grande portata. La vittoria di Allende alle presidenziali il 4 settembre del 1970 è lo sbocco di una parabola di ascesa delle lotte e della combattività della classe operaia e degli altri settori sfruttati e oppressi della società cilena che data da almeno un decennio. Questa ascesa, a sua volta, ha come sfondo una situazione internazionale che vede ovunque rimessi in discussione gli equilibri precedenti. Il 1968 è l’anno del Maggio francese, del Tet vietnamita, della “primavera” praghese; il 1969 è quello dell’autunno caldo italiano, del “Cordobazo” argentino e di grandi lotte operaie in Uruguay; il 1971 è l’anno dell’asamblea popular in Bolivia. Più in generale non va dimenticato che gli anni sessanta sono segnati in America latina dall’influenza della rivoluzione cubana. In Cile il decennio si chiude con la crisi dell’ambizioso tentativo riformista borghese rappresentato dal governo del presidente democristiano Eduardo Frei, nato sull’onda della kennediana “Alleanza per il progresso” (2). Ed è proprio da questo fallimento del riformismo borghese che occorre prendere le mosse per comprende il successo di Allende e la crisi rivoluzionaria che si sviluppa in Cile all’inizio degli anni settanta.
Il riformismo borghese della DC e la sua crisi
La DC cilena era nata a metà degli anni cinquanta guardando ai modelli delle DC europee al governo in Italia e in Germania e ispirandosi ideologicamente alla dottrina sociale della chiesa. Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta essa si afferma del panorama politico cileno come una forza ad un tempo riformista e moderata, che si contrappone sia al liberalismo borghese sia al socialismo del movimento operaio, che si dichiara apertamente per la collaborazione di classe in opposizione alla lotta di classe “marxista” e si rivolge non solo ai ceti medi e agli intellettuali ma anche alla base sociale della sinistra, cioè alle masse operaie e ai contadini. Al di là dell’ideologia, la DC si presenta soprattutto come una carta di ricambio per la classe dominante, in sintonia con le promesse dell’“Alleanza per il progresso”, nel momento in cui si delinea l’ascesa delle lotte sociali, la crisi dei vecchi equilibri e l’usura dei tradizionali strumenti di dominio. Le elezioni presidenziali del 1958, che hanno visto prevalere il candidato conservatore Jorge Alessandri per pochi punti percentuali sul candidato delle sinistre Salvador Allende, convince Washigton a puntare a fondo sulla carta democristiana. Così, nel 1964, ad Allende si contrappone il democristiano Eduardo Frei come unico candidato di un fronte borghese che comprende, oltre alla DC, i tradizionali partiti liberale e conservatore. Frei si presenta con lo slogan “Revolución en Libertad” e un programma riformista: riforma agraria, “cilenizzazione” del rame, investimenti per sostenere il mercato interno e le esportazioni, modernizzazione delle strutture statali, ecc. Frei conquista la maggioranza assoluta con il 56% dei voti, ma Allende e il fronte delle sinistre (Frap, Frente de Acción Popular) arrivano al 39% (il 5% va a un terzo candidato, il radicale Duran) (3). Con l’appoggio di Washington, che autorizza prestiti al Cile per varie decine di milioni di dollari (4), Frei attua buona parte del suo progetto. Punto saliente è la nazionalizzazione delle risorse minerarie del paese, ovviamente con congrui indennizzi per le società straniere espropriate. La principale ricchezza del Cile è il rame. Frei intende acquisire subito il 51% del settore, che è quasi per intero in mano alle multinazionali statunitensi Anaconda Copper Mining e Kennecott Copper Co., e in un secondo momento di riscattare il restante 49% (5). Con la riforma agraria, rivendicazione storica in Cile, Frei si propone due obiettivi: uno sociale, disinnescare una fonte di conflitto sociale creando una classe di contadini proprietari socialmente conservatori; e uno economico-produttivo, modernizzare il settore agricolo, estendendo l’utilizzo del suolo, aumentando la produttività, per ampliare il mercato interno quale base per lo sviluppo dell’industria nazionale (6). Nel 1965 il latifondo occupa in Cile quasi i tre quarti della superfice, con milioni di ettari di terreni lasciati incolti (7). La riforma fissa alle proprietà un tetto di 80 ettari di terra di buona qualità o una superfice equivalente (che nel caso di terreni cattivi, ad esempio di montagna, significa che la superficie può quintuplicarsi). Il resto deve essere redistribuito. L’attuazione della riforma agraria provoca a Frei problemi crescenti. L’annuncio ha suscitato grandi aspettative fra i piccoli proprietari e i contadini senza terra, che si tramutano però rapidamente in scontento per la lentezza con cui la riforma procede (8). Nel contempo essa è violentemente contrastata dall’oligarchia latifondista, appoggiata dal neonato Partido Nacional (nato dalla fusione dei partiti conservatore e liberale), che non esita neppure di fronte all’assassinio dei funzionari statali incaricati della riforma. Insomma, più che riuscire a soddisfare i bisogni, le riforme di Frei hanno l’effetto di creare e legittimare le aspettative dei settori sfruttati e di stimolare lo sviluppo dei movimenti, mostrando così indirettamente che i bisogni e la volontà delle masse vanno oltre le compatibilità del riformismo borghese.
L’ascesa delle masse
Tra il 1965 e il 1969 si verifica un crescendo di scioperi contadini e di occupazioni di terre e si sviluppa il processo di sindacalizzazione (9); si rafforzano inoltre i legami fra i braccianti agricoli e gli operai industriali e si realizzano anche episodi di autodifesa delle lotte. A partire dal 1966 si rianima anche il proletariato urbano e delle miniere e si mobilitano i lavoratori del settore pubblico. Si succedono episodi di lotte prolungate e di occupazioni di fabbriche a cui il governo dà una dura risposta repressiva (10). Si sviluppano le lotte dei pobladores (abitanti dei quartieri poveri), in particolare dei senza casa, con una crescente partecipazione delle donne e la nascita di organizzazioni di base. Malgrado i tentativi di divisione sindacale e la dura repressione (11), l’ascesa delle masse non si interrompe e coinvolge sempre nuovi settori. Il progetto di riforma universitaria provoca la nascita di un vivace movimento studentesco (12). Nel contempo, a partire dal 1967, si deteriora il quadro economico, anche per la caduta del prezzo mondiale del rame, la principale voce delle esportazioni cilene. Nel 1969-70 l’inflazione sfiora il 30% e la disoccupazione tocca il 7% a Santiago e supera il 10% nel resto del paese. Gli investimenti esteri e la presenza straniera (in particolare statunitense) continuano comunque a crescere; in particolare in settori industriali dinamici come l’automobile, la mettallurgia, il petrolio, l’elettrico e la cellulosa, sostanzialmente controllati dal capitale estero. La crisi sfocia in una recessione che vede inutilizzato il 30% degli impianti. Cresce inoltre in modo esponenziale il debito estero: da meno di 1,9 miliardi di dollari nel 1964 a quasi 3,9 miliardi di dollari nel 1970. I settori della destra cilena, che pure avevano inizialmente sostenuto Frei, cominciano a voltargli le spalle e a invocare un’alternativa conservatrice dai toni sempre più oltranzisti. Si distingue a questo proposito il principale quotidiano borghese, “El Mercurio”. Non mancano voci che cominciano a chiedere l’intervento dei militari (lo stesso Frei, per altro, ha legittimato il coinvolgimento in politica delle Forze armate istituendo il Consiglio superiore di sicurezza nazionale, composto dal ministro della difesa e dai vertici delle Forze armate). La destra accusa Frei sempre più rumorosamente di “aprire la strada al comunismo” (13). Cade in questo clima, nell’ottobre del 1969, il fallito pronunciamento militare del generale Roberto Viaux e del Regimiento Tacna di Santiago, non distante dalla Moneda. Frei fa apello al popolo, la Centrale unica dei lavoratori (Cut) dichiara lo sciopero generaale. Gli ammutinati di Tacna cedono senza combattere; le loro richieste economiche, comunque, sono accolte; il generale Viaux è semplicemente collocato a riposo. Viene nominato nuovo comandante in capo dell’Esercito il generale René Schneider. Questi sviluppi hanno un riflesso anche a livello elettorale. La DC, che aveva conquistato il 42,5% nelle elezioni legislative del 1965, scende in quelle del 1969 al 31,1%; mentre si verifica un’avanzata dei partiti di sinistra e un successo a destra del Partido Nacional. In seno alla DC si delineno differenziazioni crescenti; mentre un settore moderato, preoccupato per la stabilità e l’ordine, guarda a destra, settori riformisti più legati alla base operaia e contadina, insoddisfatti delle incertezze di Frei, propugnano un approfondimento delle riforme. Uno di questi settori rompe nel 1969 con il partito e fonda il Mapu (Movimiento de Acción Popular Unitario) che si dichiara marxista e anticapitalista e si orienta verso l’Unidad Popular. La polarizzazione politica tocca anche il Partido radicale, storica formazione borghese progressista: mentre un settore si unisce alla destra, un altro rompe a sinistra formando Democracia Radical. Avvicinandosi le presidenziali del settembre 1970, il bilancio del riformismo democristiano non può essere più disastroso. Da un lato la DC si avvia alla sconfitta, dall’altro i conflitti sociali e politici si vanno radicalizzando: le masse operaie e contadine, i pobladores, tutti gli strati sfruttati della società cilena vogliono di più e subito, mentre le classi dominanti, sempre più divise, stanno perdendo il controllo della situazione e si ritirano spaventate dai propri stessi propositi riformisti. Settori crescenti, anzi, guardano alla destra e ai militari come agli unici strumenti utilizzabili per una rapida restaurazione dell’ordine e dei propri privilegi. Anche a Washington l’allarme per la situazione politica cilena è massimo e ci si prepara ai peggiori scenari (14). In estrema sintesi: si va delineando una crisi profonda della società e dello Stato che preannuncia sviluppi rivoluzionari.Il risultato elettorale del 4 settembre 1970 è un riflesso di questa crisi e a sua volta contribuisce ad accelerarla e ad approfondirla.
Il progetto di Allende e dell’Unidad Popular
Il movimento operaio cileno ha una lunga tradizione di lotte e di organizzazione che risale alla fine dell’Ottocento. Qualche informazione essenziale a questo proposito. Nei primi anni del XX secolo diversi episodi di sangue segnano l’apprendistato del movimento operaio. Nel 1909 si forma la prima centrale sindacale, la Federacion Obrera de Chile, diretta da Luis Emilio Recabarren, il primo operaio eletto al parlamento (nel 1906). Sotto il suo impulso nel 1913 viene fondato il primo partito operaio della storia cilena, Partido Obrero Socialista. Nel 1919, sull’esempio della rivoluzione russa, si realizza per qualche tempo un’esperienza di poder popular nella città portuale di Puerto Natales. Nel 1922 viene fondato il Partito comunista che ha in Recabarren il dirigente più rappresentativo. Nel 1933 sorge anche il Partito socialista, che conserverà una particolare fisionomia di sinistra e la presenza di tendenze diverse, anche “rivoluzionarie” (più propriamente definibili “centriste” da un punto di vista marxista rivoluzionario), tanto è vero che ancora nel 1969 il congresso del partito vota una mozione che rivendica la conquista del potere per “via insurrezionale”. Nel 1933 si forma Izquierda Comunista, che si collega all’Opposizione di sinistra internazionale trotskista, e da cui sorge più tardi il Partido Obrero Revolucionario (Por), che ha nel dirigente sindacale Humberto Valenzuela il suo esponente più noto. Nel 1965, nel clima creato dalla rivoluzione cubana, il Por partecipa alla formazione del Movimiento de Izquierda Revolucionaria (Mir). Il Mir è il frutto di un processo di ragruppamento di tendenze classiste e rivoluzionarie di diverso orientamento (guevarista, trotskista, maoista). Diventa in pochi anni una delle organizzazioni rivoluzionarie più importanti dell’America latina, forte di più di due mila militanti, con un’importante influenza in settori studenteschi e popolari e una presenza operaia non marginale. E’ però segnato da gravi limiti politici e strategici; in estrema sintesi: da una linea guerriglierista che lo porta ad azioni sostitutiste e all’incomprensione e all’isolamento rispetto al movimento reale delle masse, proprio nel momento cruciale della vittoria elettorale dell’Unidad Popular (15). Nel 1953 è sorta anche la Central Unica de Trabajadores de Chile (Cut), la centrale sindacale operaia che alla fine degli anni sessanta organizza la maggioranza relativa del proletariato industriale. Tuttavia, a dispetto della forte vocazione classista che si esprime sul terreno organizzativo, i partiti maggioritari (comunista e socialista) si caratterizzano sostanzialmente per una linea riformista che si è già tradotta in diversi momenti precedenti (segnatamente nel 1938 e nel 1947) nel sostegno e/o nella partecipazione dei partiti operai ad alleanze e governi di “fronte popolare” guidati dal Partito radicale. Anche la realizzazione del Frente de Acción Popular (Frap) nel 1957, coalizione elettorale fra il Partito comunista e quello socialista, rientra in uno schema politico di tipo democratico-fronte populista. In questo senso, la costituzione nel 1969 della coalizione di Unidad Popular, pur con la rilevante novità dell’egemonia dei partiti operai, si inserisce nella continuità di una consolidata tradizione riformista del movimento operaio cileno.
Il programma dell’Unidad Popular
La proposta di una allenza politico-elettorale ampia, che superi a destra i confini della coalizione esistente (il Frap), viene avanzata dal Partito comunista che, in coerenza con la propria ispirazione stalinista e in una chiara logica di “rivoluzione a tappe”, vuole realizzare un’alleanza fra la classe operaia e i settori “avanzati” della borghesia nazionale, in contrapposizione ai settori “arretrati” della stessa, identificati in Cile con l’oligarchia latifondista, i settori monopolistici e/o legati all’imperialismo straniero, in particolare nordamericano (16). L’Unidad Popular (UP) si forma dunque verso la metà del 1969 in vista delle elezioni presidenziali dell’anno successivo. Oltre al PC e al PS, vi confluiscono il Mapu (nato dalla scissione di sinistra della DC di cui si è detto), il Movimiento de Accion Popular Independiente (Api, una formazione piccolo borghese), il piccolo Partido Socialdemocrata (in realtà di orientamento cristiano sociale), e il Partido Radical, che rinuncia a presentare Alberto Blatra come proprio candidato (17). Il programma dell’Unidad Popular (18), presentato alla fine dell’anno, delinea una strategia democratica che combina propositi antimperialisti e antioligarchici con un progetto avanzato di riforme economico-sociali e politiche che ha come referenti dichiarati la classe operaia, i contadini e le masse popolari, ma anche i ceti medi e i settori borghesi interessati alla modernizzazione del paese, al controllo delle risorse nazionali, allo sviluppo del mercato interno e al sostegno all’industria nazionale. Le proposte sul terreno economico (riforma agraria, redistribuzione del reddito, nazionalizzazione del rame, delle banche e dei settori industriali strategici) si pongono in continuità piuttosto che in rottura con la politica del governo Frei (19). Sul terreno politico l’UP cerca di rassicurare la borghesia con dichiarazioni di lealtà democratica e costituzionale, arrivando a delineare un rafforzamento del ruolo delle Forze armate. Nel contempo prospetta alcune riforme razionalizzatrici (camera unica eletta con criteri proporzionali) e un allargamento della democrazia attraverso la partecipazione delle organizzazioni popolari a nuovi organismi di un preteso poder popular, non contro ma a lato delle istituzioni esitenti, così da trasformarle in un vero estado popular (20) attraverso il quale sia possibile avviare il processo di transizione pacifica al socialismo. Viene anche annunciata una nuova Cosituzione, che “incorpori il popolo nell’esercizio del potere statale”, da approvare con un referendum popolare. Il programma chiama anche alla costruzione di comitati di base dell’Unidad Popular, che non solo devono agire come comitati elettorali ma devono altresì “prepararsi a esercitare il poder popular” (21).
La vittoria di Allende
Il 22 gennaio 1970 l’Unidad Popular sceglie Salvador Allende come proprio candidato alle elezioni presidenziali. Per Allende, figura di prestigio della sinistra cilena, sarà la quarta volta che corre per la presidenza come candidato comune delle sinistre (22). Nelle condizioni di crisi e di ascesa delle masse, la sua candidatura diventa il canale attraverso cui si esprime la volontà di cambiamento di vasti settori del popolo cileno. La sua vittoria viene perciò sentita come una sconfitta della classe dominante e contribuirà pertanto a stimolare la determinazione e le lotte dei lavoratori. Significativamente, la borghesia non riesce a contrapporre ad Allende una candidatura unica. Mentre la destra si rivolge alla figura di Jorge Alessandri, nella DC prevale la componente riformista che candida un esponente della sinstra interna, l’ex ambasciatore a Washington Rodomiro Tomic (23). Se è vero che la divisione dal fronte borghese favorisce il candidato dell’Unidad Popular, è anche vero che la scelta di Tomic da parte della DC non riflette solo lo spostamento a sinistra della base popolare del partito ma esprime anche il disegno cosciente di contendere ad Allende i settori popolari attratti dalla sua candidatura. In effetti, delineatasi una divisione dei consensi dei settori popolari (operai, contadini, pobladores…) fra Allende e Tomic, sembra a un certo punto che Alessandri possa facilmente prevalere. La campagna elettorale conosce comunque toni molto accesi che contribuiscono a radicalizzare gli animi. La destra sviluppa una campagna terroristica in cui arriva a prevedere, se vincesse Allende, i carri armati russi fuori dalla Moneda; Tomic radicalizza progressivamente i propri toni nel tentativo di sottrarre al candidato delle sinistre l’elettorato popolare. Il 4 settembre, tuttavia, anche se per poche decine di migliaia di voti, Allende vince (24). Va anche osservato che, malgrado l’allargamento a destra al Partito radicale, l’UP ottiene nel 1970 un risultato inferiore a quello del 1964. Ora, non avendo nessun candidato ottenuto la maggioranza assoluta, la tradizione costituzionale del Cile prevede che il Congresso in seduta congiunta nomini presidente il candidato primo piazzato. In questo caso, però, il rispetto di questa prassi appare tutt’altro che scontato e cominciano subito i tentativi per rimettere il discussione l’esito del voto popolare. In parlamento, infatti, la DC e la destra godono della maggioranza assoluta (25).
Dal 4 settembre al 4 novembre
La borghesia cilena ha già fatto due volte in precedenza l’esperienza del fronte popolare, negli anni trenta e quaranta, e sempre con risultati “positivi” dal suo punto di vista. Ma questa volta il quadro è diverso: la credibilità dei suoi partiti è logorata, il peso dei partiti operai predominante, la radicalizzazione delle masse più profonda. Forse più ancora che dalla borghesia cilena – una frazione della quale può sperare di ricavare dei benefici da un governo riformista – il governo Allende viene giudicato intollerabile a Washington. Kissinger e Nixon sono allarmati dalle possibilità di contagio dell’esempio di un governo “marxista” che giunge al potere attraverso le elezioni. Il segretario di Stato, Henry Kissinger, spiega che “è facile prevedere che se Allende ottiene la presidenza, ci sono molte probabilità che nel giro di qualche anno si instauri un governo comunista… un governo comunista unito, ad esempio, all’Argentina, che già è profondamente lacerata, unito al Perù… unito alla Bolivia, che già è andata molto a sinistra, contro gli Stati Uniti. Credo che non dobbiamo autoilluderci che se Allende assume il controllo del Cile non ci provocherà dei problemi…”. L’amministrazione repubblicana, che ha rinfacciato per un decennio ai democratici la nascita di Cuba socialista, teme una replica in Cile di quella sfida. Per questo si vuole evitare in tutti i modi l’insediamento di Allende e a tale scopo Richard Nixon autorizza la Cia a “fare tutto il possibile, salvo un’azione del tipo Repubblica Dominicana”. Il 15 settembre, in una riunione con Richard Helms, il capo della Cia, Richard Nixon dà mandato ai capi dell’agenzia di predisporre un piano da sottopore a Kissinger “Una possibilità su dieci, ma liberiamo il Cile da quel figlio di puttana!”) mettendo subito a disposizione dieci milioni di dollari. Ovviamente c’è il massimo allarme anche nelle multinazionali Usa che hanno i maggiori investimenti in Cile, come l’Itt che è minacciata dal programma di nazionalizzazioni di Allende. In effetti, appena noto l’esito del voto del 4 settembre si delinea immediatamente una situazione allarmante, accentuata ad arte dalle dichiarazioni dei rappresentanti del governo in carica: fuga di capitali all’estero, corsa al ritiro dei depositi dalle banche, immediata sospensione degli investimenti e dei pagamenti da parte delle imprese straniere, riduzione degli investimenti interni, dichiarazioni allarmistiche della stampa dei ministri del governo uscente. E’ solo l’inizio… Sul terreno politico si delineano subito tre possibili scenari. Il primo: la ratifica parlamentare di Allende; ma la DC subordina il suo voto a determinate condizioni: l’esplicito impegno di Allende di rispettare tutta una serie di vincoli politici e istituzionali che prendono la forma di un documento denominato Estatuto de las Garantías Costitucionales (ne parliamo più estesamente più avanti). Il secondo: la DC vota per Alessandri, il candidato secondo arrivato, con l’impegno di quest’ultimo di dimettersi subito e di indire nuove elezioni in cui la DC e la destra dovrebbero accordarsi su un candidato comune (eventualmente lo stesso Frei) da opporre ad Allende. Infine il terzo scenario: esso prevede né più né meno che un colpo di Stato militare che impedisca l’insediamento di Allende. Washington si muove immediatamente per realizzare il secondo, o se il secondo non riesce, il terzo, degli scenari descritti. L’ambasciatore statunitense a Santiago, Edward Korry, dichiara a Frei che gli Stati Uniti non lasceranno arrivare in Cile “una sola vite e un solo dado, sotto Allende”. Ma Frei non è disponibile a tentare il golpe istituzionale per timore della reazione popolare (26). Anche il secondo scenario – un golpe preventivo delle Forze armate – si dimostra impraticabile per l’indisponibilità dei vertici militari, in particolare del comandante in capo dell’Esercito, il generale Renè Schneider, secondo il quale nel contesto dato l’intervento dei militari può provocare una rivolta popolare e la guerra civile (27). Non rassegnata, l’estrema destra cerca di forzare la mano ai militari con un’azione che si rivela un disastro. Il 22 ottobre, un gruppo paramilitare diretto dal generale Viaux e armato dalla Cia, tenta di sequestrare il generale Schneider con l’intento di farne ricadere la responsabilità sull’estrema sinistra. Ma il piano fallisce: il generale reagisce con le armi e viene gravemente ferito; muore tre giorni dopo. I suoi assassini sono rapidamente individuati e arrestati (28). Il fallito attentato contribuisce a far realizzare il primo scenario. Il 24 ottobre il Congresso ratifica l’elezione di Allende. Due giorni prima ha approvato le riforme costituzionali, proposte dalla DC e accettate da Allende, con cui questi si vincola: ad applicare senza modifiche la riforma agraria di Frei; a non ostacolare la costituzione e lo svilppo delle scuole private; a non modificare i testi scolastici della scuola primaria e secondaria; a non espropriare i mezzi di comunicazione di massa; a non ammettere “organismi di fatto che operino in nome di un supposto poder popular”; e, soprattutto, a lasciare immutata la struttura gerarchica delle Forze armate e dei Carabineros e le regole di selezione e avanzamento degli ufficiali; nonché a riconoscere l’autonomia (!) dei corpi armati dello Stato borghese (invece del tradizionale dovere di obbedienza nei confronti del potere esecutivo) e la loro funzione di “garanti della convivenza democratica” (una sorta di “diritto di ingerenza” nella vita politica…). Viene così precostituito, con la firma dello stesso Allende, l’appiglio legale per il golpe del settembre 1973 (29). In realtà, l’accettazione dello Statuto delle garanzie (preteso dalla DC per conto della classe dominante e dell’imperialismo) contraddice qualsiasi dichiarazione sulla “transizione al socialismo” proclamata nel programma dell’Unidad Popular o nei discorsi di Allende. Essa rappresenta l’accettazione piena e definitiva del quadro dello Stato borghese cileno quale esso è, la rinuncia a ogni intenzione anche solo di “riforma” dello stesso, addirittura la rinuncia ad esercitare alcune delle prerogative costituzionali del presidente. Questo passo svela la vera natura dell’Unidad Popular: si tratta di una forma di collaborazione di classe fra i gruppi dirigenti del movimento operaio e la classe dominante nel contesto di una acuta crisi politica e sociale (“fronte popolare”). La borghesia accetta di cedere (per il momento) la massima carica dello Stato in cambio della garanzia di conservare sotto il proprio diretto controllo gli strumenti fondamentali del proprio dominio. Insomma, una lezione di “marxismo pratico” impartita ai dirigenti “marxisti” del movimento operaio dai rappresentanti della classe dominante, la quale dimostra di sapere per lunga esperienza storica in che cosa consista, in ultima analisi, il suo dominio sulla società. Resta da aggiungere che i dirigenti del PC e del PS minimizzarono il valore della firma di questo accordo e il suo testo fu tenuto accuratamente nascosto alla base…
La prima fase: le realizzazioni del governo Allende
Il 4 novembre 1970 Allende assume ufficialmente i poteri presidenziali, insedia il suo governo e inizia con grande energia l’attuazione del programma dell’Unidad Popular, a partire dalle “prime quaranta misure di base”. Si può senz’altro affermare che il primo anno del governo Allende risulta complessivamente positivo, sia per la quantità di realizzazioni, sia per gli effetti che queste comportano sulle condizioni di vita di milioni di cileni, per gli immediati riflessi nel rapporto fra l’UP e le masse e fra l’UP e l’opposizione (30). Fra le misure più significative realizzate nel primo anno merita qui elencare: la refezione scolastica per tutti gli alunni della scuola di base; il programma che concede gratuitamente mezzo litro di latte al giorno a ogni bambino al di sotto dei 14 anni e alle madri in attesa; l’istituzione di asili nido e scuole d’infanzia per 80 mila bambini e l’apertura di nuove scuole di vario grado; la distribuzione gratuita dei libri di testo nella scuola dell’obbligo; l’aumento delle le borse di studio (le iscrizioni al primo anno di università aumentano subito dell’80%); l’apertura di consultori e di nuovi ospedali; un programma di edilizia popolare e l’imposizione di un tetto a un quinto del salario per il pagamento dei debiti ipotecari; una campagna di alfabetizzazione degli adulti; l’estensione a tutti della pensione di vecchiaia e l’innalzamento dei minimi salariali e pensionistici e degli assegni familiari; l’introduzione di un meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’aumento dei prezzi. Sono inoltre concessi incentivi per il cinema, per le attività culturali in genere e per la ricerca scientifica. Sul terreno democratico il governo di UP estende il diritto di voto ai diciottenni e agli analfabeti; riconosce i diritti fino allora negati ai popoli indigeni Mapuche e Aymara, a cui vengono restituiti 70 mila ettari di terre; introduce una serie di meccanismi che oggi diremmo di “democrazia partecipativa” sul piano locale e sociale. Sono inoltre riconosciuti e allargati i diritti sindacali. Nel clima di crescente mobilitazione, la Cut tocca i 900 mila iscritti, pari a circa il 30% della forza lavoro del settore privato. Attraverso la contrattazione sindacale, incoraggiata dal nuovo quadro politico, i lavoratori conquistano sostanziali aumenti dei salari reali, e ciò malgrado il permanere di un tasso di inflazione piuttosto elevato, nel 1971 attorno al 20% (31). Già fra il dicembre del 1970 e il gennaio del 1971 il governo presenta in parlamento varie leggi per l’avvio delle riforme economiche di maggior rilievo, come la nazionalizzazione del rame, l’istituzione dell’Area de propiedad social (Aps), la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese statali; contemporaneamente procede all’acquisizione allo Stato delle banche, della compagnia telefonica (la Itt statunitense) e dei maggiori monopoli e accelera l’attuazione della riforma agraria. Mentre si avviano queste riforme, viene attuata una politica economica fortemente espansiva che consente al paese di uscire dalla recessione in cui è precipitato negli ultimi due anni del governo Frei. L’utilizzo degli impianti risale dal 75 al 95%, la disoccupazione scende in due anni dal 9 a meno del 4%, la crescita del Pil raggiunge nel 1971 il 7,7%. Della positiva situazione economica approfittano naturalmente anche commercianti e piccoli imprenditori che capiscono rapidamente che “si possono fare buoni affari anche con un governo di sinistra”. Tutto ciò ha un immediato riscontro politico nelle elezioni amministrative dell’aprile del 1971. L’Unidad Popular ottiene un successo senza precedenti, arrivando al 50,9% dei voti. E’ questo il momento favorevole, se Allende e i dirigenti dell’Unidad Popular lo volessero, per convocare il referendum per una nuova costituzione e “per istituzionalizzare l’incorporazione del popolo nel potere dello Stato”. Ma evidentemente l’accordo con la DC nell’ottobre precedente impone di accantonare simili propositi…
La nazionalizzazione del rame
L’11 luglio 1971 (data subito eretta a Festa della dignità nazionale) il parlamento cileno approva all’unanimità (!) la nazionalizzazione delle miniere del rame in mani straniere. Il fatto non è così sorprendente: si completa in tal modo un progetto che è stato avviato dal governo democristiano; d’altra parte, alle compagnie espropriate è concesso un adeguato compenso, anche se Allende fa inserire nel calcolo dell’indennizzo uno “sconto” per i superprofitti realizzati dalle compagnie negli anni precedenti (32). Si costituisce la Corporación del Cobre (Codelco), che diventa la principale impresa produttiva mondiale del settore per volume di esportazioni e una delle più efficienti per produttività e bassi costi di estrazione. Con procedure analoghe viene avviata anche la nazionalizzazione delle miniere di salnitro, di carbone e di ferro (la cui estrazione alla fine del ’71 è già controllata al 95% dallo Stato).
Le altre nazionalizzazioni
Nel 1970 il sistema bancario cileno è particolarmente concentrato (il 3% delle banche monopolizza il 45% dei depositi, il 55% dei profitti e il 44% dei prestiti). Tra il dicembre ’70 e il gennaio ’71 il governo attua la nazionalizzazione delle banche nazionali e delle assicurazioni dando ordine alla Banca centrale di acquistare il 51% delle loro azioni. In modo analogo è attuata la nazionalizzazione delle banche estere (fra cui le filiali delle americane First National City Bank e Bank of America) con l’accordo delle banche medesime, mediante l’acquisto delle loro azioni (facilitato da un prestito concesso dalle banche stesse allo Stato e da restituire in 5 e 7 anni). Il controllo del credito consente subito di allargare i prestiti ai piccoli e medi produttori e alle cooperative e di abbassare i tassi di interesse dal 18 al 12%. Nel 1971 viene nazionalizzata anche la Compañía de Teléfono y Telégrafo, proprietà della multinazionale nordamericana Itt.
L’“Area de propiedad social”
L’attuazione del programma in materia di nazionalizzazioni nel settore industriale procede invece più a rilento e con conflitti molto più aspri con i proprietari espropriati. Ancora più significativo è il fatto che speso l’iniziativa è assunta direttamente dai lavoratori, che mostrano di avere un’idea diversa dal governo sul senso e sui modi delle nazionalizzazioni e che non esitano a spingersi oltre i confini fissati dai burocrati ministeriali. In molti casi i lavoratori semplicemente occupano la propria fabbrica e poi rivendicano la sua inclusione nell’Aps. Le imprese che in un modo o nell’altro passano sotto il controllo dello Stato confluiscono nell’Area de Propiedad Social (Aps), sottoposta a una guida nazionale centralizzata che ha lo scopo di farne il settore propulsivo dello sviluppo economico del paese. Nei fatti, le nazionalizzazioni del governo di Unidad Popular non sono diverse da quelle di un qualsiasi governo borghese. Non solo prevedono l’indennizzo dei capitalisti espropriati, ma non si inseriscono in un progetto di rovesciamento del capitalismo e di trasformazione dei rapporti sociali. Sono concepite, soprattutto dal PC, in una logica prevalentemente produttivistica di cui i lavoratori sono chiamati a farsi carico in nome del “bene nazionale” e in ragione del fatto che al governo ci sono i partiti di sinistra… La gestione delle singole imprese è invece affidata a comitati paritetici di rappresentanti eletti dai lavoratori e di funzionari nominati dal governo. Ma mentre i primi decadono ogni anno, i secondi sono irrevocabili e spesso agiscono con la stessa arroganza dei vecchi padroni. Questo conflitto, dapprima latente, tende a diventare aperto nel corso del 1972, a fronte di due sviluppi quasi concomitanti: da un lato, i compromessi che il governo stabilisce con le forze padronali e con la DC, che prevedono in molti casi la restituzione delle aziende occupate dai lavoratori; dall’altro, la crescente attivazione indipendente dei lavoratori in risposta alla disorganizzazione economica provocata dalla sedizione della borghesia (le serrate, il disinvestimento, gli attentati, ecc.). Nel dicembre del 1971 la lista del governo delle imprese da includere nell’area di proprietà sociale e dell’area di proprietà mista comprende 91 imprese, di cui 74 manifatturiere. Un anno dopo, le imprese in mano allo Stato (“requisidas” o “intervenidas”) sono 202, di cui ben 152 non previste nel piano iniziale del governo (33). Il progetto di legge Prats-Millas degli inizi del 1973, volto a definire i precisi confini dell’Area Social per rassicurare la borghesia, ne include circa 120 e alcune sono ancora in mani private. Ciò significa che il governo si prepara a restituirne circa un centinaio ai vecchi proprietari! Ciò provoca la reazione dei settori più avanzati dei lavoratori. Il 30 gennaio ’73, contro il piano Millas si svolge a Santiago una grande manifestazione operaia convocata dai cordones industriales. Sul versante parlamentare il governo si scontra invece con la DC e con la destra che proprio su questi temi faranno approvare nell’estate del 1973 un ordine del giorno che accusa il governo di essere fuori dalla legalità, fornendo così un alibi per l’intervento dei militari.
L’accelerazione della riforma agraria
Sul terreno della riforma agraria il governo di Unidad Popular si limita ad accelerare l’applicazione della riforma varata da Frei. Nei primi 18 mesi di Allende soro infatti espropriati quasi 5,3 milioni di ettari complessivi, ossia quasi il doppio della distribuzione di terre realizzata da Frei. La ripartizione della terra realizzata da Allende, sommata a quella attuata dal governo Frei, mette fine in Cile al latifondo incolto. Sono beneficiate dalla riforma agraria circa 50 mila famiglie. Un risultato senza dubbio significativo, anche se tutto interno al quadro democratico-borghese. D’altra parte, la riforma era stata concepita per modernizzare il capitalismo nelle campagne e per allargare il mercato interno, non per avviare la transizione al socialismo… Le possibilità rivoluzionarie di questo intervento sono indebolite anche dal modo in cui è attuato. Le terre espropriate sono assegnate a livello provinciale, con la partecipazione delle organizzazioni contadine, secondo tre modalità principali: gli asentamientos, le assegnazioni individuali; i centros de riforma agraria (Cera), ossia grandi aziende collettive; e i centros de produción, grandi imprese statali. Mancano però le risorse per promuovere una rapida modernizzazione tecnologica e il governo non riesce ad attuare una efficace pianificazione del settore. La maggior parte delle terre sono assegnate per la coltivazione direttamente alle famiglie contadine. Il governo Allende cerca di incentivare i contadini a unirsi in cooperative, ma queste non incontrano massicce adesioni. Con i Cera si vogliono realizzare invece grandi aziende collettive modello, amministrate dai contadini stessi, su terre particolarmente produttive di proprietà dello Stato; i lavoratori vi percepiscono un salario base uguale, integrato da una parte proporzionale ai risultati produttivi di ciascuno; nei Cera le donne sono considerate su un piano di parità con i lavoratori maschi; nel 1973, tuttavia, queste esperienze avanzate non coinvolgono più di tre mila famiglie. I centros de produción sono invece grandi imprese statali tecnologicamente attrezzate in relazione a specifici ecosistemi (ad esempio le colture forestali, l’avicoltura, ecc.) che offrono le maggiori possibilità di assorbire il bracciantato. Il dato politicamente più significativo è tuttavia un altro: la riforma viene attuata essenzialmente per via burocratico-amministrativa, non attraverso la mobilitazione diretta dei contadini, che quando si sviluppa, invece, tende a scontrarsi con i funzionari del governo. Ciò non manca di provocare malcontenti e risentimenti per i ritardi e le inefficienze, che in certi casi offrono il destro per attacchi demagogici dell’opposizione. Da un punto di vista strettamente economico, comunque, la riforma dà risultati abbastanza positivi; la produzione agropastorale aumenta del 5% nella stagione 1970-71 e dell’1,6% l’anno dopo, pur scontando il boicottaggio dei proprietari espropriati. Questi aumenti non bastano tuttavia a far fronte all’aumento della domanda, conseguenza delle maggiori entrate dei lavoratori e dei settori più poveri. Va detto però che i problemi di approvvigionamento dipendono soprattutto dal sabotaggio economico messo in opera dal padronato e dall’imperialismo (34).
Le “juntas de abastecimientos y precios”
Una iniziativa del governo Allende complementare alla riforma agraria è la creazione di imprese statali nei settori della commercializzazione e della distribuzione, per rompere il quasi monopolio detenuto da grandi compagnie spesso controllate dal capitale straniero, come Balfour, Gibbs, Williamson ecc. Parallelamente vengono istituite le juntas de abastecimientos y precios (Jap), elette a livello comunale, con il compito di incentivare forme di autogestione nella distribuzione dei beni di base, in rapporto diretto con le aziende dell’area sociale, in particolare nei settori alimentare e tessile. Questi strumenti, coordinati a livello locale dei commandos comunales, diventeranno un canale importante della mobilitazione popolare per contrastare il paro padronale dell’ottobre ’72 e successivamente.
Le iniziative di politica internazionale
Delineando le principali realizzazioni del governo di Unidad Popular non si può mancare di accennare brevemente alle iniziative assunte sul terreno della politica estera, in genere connotate da un forte valore simbolico. Il primo passo è il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Cuba (più tardi con la Cina, il Vietnam e la Repubblica democratica tedesca); il secondo è la dichiarazione del Cile “nazione non allineata”. Seguono l’invito a Fidel Castro (che si tratterrà in Cile per ben tre settimane nel novembre del 1971), un lungo tour nelle capitali dell’America latina e in Unione sovietica, in cerca di sostegno economico. Nel dicembre 1972 Allende pronuncia all’Onu una vigorosa denuncia dell’imperialismo nordamericano e dei suoi piani di strangolamento dell’economia cilena. Alla prova dei fatti, però, Allende continuerà a pagare il servizio sull’esorbitante debito estero ereditato dal suo predecessore; solo alla fine del 1972 chiederà una moratoria dei pagamenti.
La seconda fase: dalla ritirata alla resa
In verità, come abbiamo visto, l’inizio dell’offensiva borghese e imperialista contro Allende precede la sua elezione e si intensifica nei due mesi che precedono la sua assunzione della presidenza. Da subito essa è ispirata e guidata direttamente da Washington. Ancor più che per la borghesia cilena – una frazione della quale può anche pensare di poter beneficiare dalle riforme dell’Unidad Popular (che, come si è visto sopra, si muovono in continuità con quelle del governo Frei) – il governo Allende è ritenuto una minaccia intollerabile dai massimi dirigenti dell’imperialismo nordamericano. A Washington, Kissinger è allarmato per le possibilità di contagio dell’esempio di un governo “marxista” che “va al potere” (in realtà solo al governo) attraverso le elezioni, ossia con piena legittimità “democratica” secondo gli usuali parametri borghesi. L’amministrazione repubblicana, che ha contestato per anni a quella democratica di aver permesso la nascita della Cuba socialista, teme una replica in Cile di quella sfida. Viene pertanto deciso che l’esperimento allendista deve fallire. Non essendo riuscito, come si è visto, il tentativo “preventivo” di impedire l’ascesa di Allende alla presidenza, si decide che Allende deve essere rovesciato.
La strategia della “destabilizzazione”
La questione è affrontata a Washington con grande impegno e concepita come un vero e proprio “esperimento” di controrivoluzione. La strategia prescelta viene definita con un termine che diventerà tristemente famoso: “destabilizzazione”. Si tratta in buona sostanza di provocare il caos economico, di suscitare contro il governo le proteste di settori sociali colpiti e/o spaventati dai media, di suscitare un clima di insicurezza e di violenza atto a giustificare l’invocazione di un golpe per ristabilire la legge e l’ordine. A questo scopo viene costituito a Washington un Comitato speciale (Comitato 40) e stanziate ingenti somme che vanno a finanziare in Cile le organizzazioni, i giornali, le radio dell’opposizione; le azioni di sciopero, il sabotaggio economico, i gruppi paramilitari che agiscono con attentati e assassini politici (35). Gli effetti di questa strategia cominciano a farsi pesanti verso la fine del 1971. La situazione economica peggiora. Il pagamento degli indennizzi (36), il blocco economico attuato di fatto dagli Usa contro le esportazioni cilene, il taglio dei crediti da essi imposto anche alle istituzioni internazionali sotto il loro controllo, la caduta di un terzo degli introiti del rame, dovuta al crollo del prezzo mondiale del metallo provocata dalla decisione di Nixon di vendere la riserva strategica statunitense, cominciano a creare crescenti problemi all’economia cilena (37).
Anche per evitare una ricaduta nella recessione, il governo continua nella politica monetaria e creditizia espansiva, con la conseguenza di indurre un’accelerazione dell’inflazione (38). Cominciano a scarseggiare i beni di prima necessità nei negozi, fanno la loro comparsa le code e il mercato nero, tutti fenomeni che colpiscono e peggiorano le condizioni di vita di vasti settori della popolazione, ma che sono percepiti con particolare irritazione dai ceti benestanti poco adusi a simili disagi. Facendo leva su queste difficoltà, l’opposizione ricorre anche alle manifestazioni di piazza. Il 1 dicembre 1971 ha luogo una Marcha de las cacerolas davanti alla Moneda: sono soprattutto le donne dei ceti medi a protestare per la mancanza dei beni nei negozi. Le mobilitazioni di questo o quel settore di piccola borghesia o di lavoratori professionali diventano più frequenti nei mesi successivi, incoraggiate dal sostegno, anche finanziario, che ottengono dall’estero (39). Di fronte alle difficoltà e alle crescenti iniziative dei suoi avversari, l’UP si divide. Il confronto si sviluppa in due incontri (il primo all’inizio dell’anno, in secondo a giugno) in cui si riuniscono con Allende i vertici dell’Unidad Popular e del governo. L’incontro di Lo Curro, nel giugno del 1972, può essere assunto come uno spartiacque. Si scontrano due posizioni. La prima è quella sostenuta dal PC e dalla maggioranza allendista del PS: bisogna cercare un nuovo accordo con la DC ed evitare a ogni costo l’aggravarsi di una crisi per la quale, secondo il PC, “né l’UP né le forze sociali su cui essa si fonda sono preparate”; la parola d’ordine è “calmare le acque”. Ciò significa però enfatizzare gli obiettivi produttivi e opporsi frontalmente all’azione indipendente delle masse. La seconda posizione è sostenuta dalla sinistra del PS, dal Mapu e dalla Izquierda Cristiana, che spingono invece per “avanzar sin transar” (andare avanti senza negoziare), ossia completare il programma appoggiandosi sulla mobilitazione dei lavoratori e delle masse. Alla fine Allende attua un rimpasto del governo. Il ministro dell’economia Pedro Vuskovic, esponente della sinistra socialista, deve cedere il posto. Al ministero delle finanze va Orlando Millas, esponente del PC e della linea vincente. Contemporaneamente si realizza un accordo con la DC per le nomine ai vertici delle banche nazionalizzate e si stabilisce di escludere dall’area sociale la Compañia manufacturera de papeles y cartones, la maggiore impresa nel settore di proprietà di… Jorge Alessandri! (In questo contesto nel giugno 1972 si svolgono anche le elezioni per la direzione della Cut nelle quali le liste dei partiti dell’UP e della DC raccolgono rispettivamente il 70 e il 30% dei voti). In realtà lo scontro ha rivelato che l’UP nel suo insieme non ha la comprensione esatta della nuova situazione. Ciò che accade è il fatto che la borghesia è sempre più preoccupata del fatto che le masse sfruttate tendono a “rompere le dighe” ed è perciò sempre meno disposta a concedere altro tempo alle direzioni riformiste. Per un verso, dunque, è destinata a fallire la politica di accordo cercata dal PC e da Allende, in quanto la borghesia non è affatto intenzionata a concludere patti con gruppi dirigenti che non sono più in grado di garantirli. Per un altro, d’altra parte, è del tutto inadeguata la posizione di chi vuole procedere con le riforme senza rendersi conto che la dinamica rivoluzionaria che si è messa in moto non può risolversi, in ultima analisi, che con mezzi rivoluzionari, ossia con la presa del potere statale; o essere stroncata dalla razione violenta della classe dominante attraverso le istituzioni statali che essa ancora controlla, in primo luogo l’istituzione militare.
La nascita dei “cordones industriales”
Effetto di questi processi contraddittori (le masse vanno a sinistra, il governo va a destra), dalla metà del ’72 si moltiplicano i conflitti fra le lotte operaie e contadine e il “governo popolare”. Durante uno di questi episodi – la mobilitazione dei contadini della poblacion di Melipilla, nei pressi di Santiago, che reclamano la terra e la rimozione di un magistrato che ritarda le assegnazioni – interviene anche la polizia e ne seguono scontri e 20 arresti. Quando però la settimana seguente i contadini occupano la strada, si incontrano con gli operai di alcune fabbriche della vicina località di Cerrillos che hanno costituito un coordinamento di delegati. Nasce così nel giugno 1972 il primo organismo di tipo “sovietico” della rivoluzione cilena, il cordon industrial (coordinamento di settore industriale, costituito da delegati eletti dai lavoratori) promosso dai lavoratori di trenta imprese del settore Cerrillos-Maipú (nell’area di Santiago), il quale farà presto conoscere una dichiarazione “a favore del controllo operaio della produzione” e per una “assemblea dei lavoratori al posto del Congresso”. L’idea si diffonde rapidamente; qualche giorno dopo nasce il cordon industrial in Vicuña Mackenna, altro quartiere operaio di Santiago. Sarà soprattutto nel corso della mobilitazione per contrastare la serrata padronale nell’ottobre seguente che l’idea dei coordinamenti si generalizza: più di cento coordinamenti industriali sorgeranno in tutto il paese, venti nella sola Santiago. Nello stesso senso va l’asamblea popular che si forma alla fine di luglio a Concepción, la seconda città operaia del paese, in cui si ritrovano più di 3.000 delegati, rappresentanti di fabbrica, dei partiti di sinistra e delle organizzazioni popolari e studentesche. Deliberatamente non vi aderisce il PC, che accusa l’assemblea di essere una “manovra della reazione e dell’imperialismo che utilizza come schermo l’ultrasinistra”. Anche Allende attacca l’assemblea di Concepción perché, spiega, “nessun rivoluzionario sensato può ignorare il sistema istituzionale che governa la nostra società, di cui fa parte il governo di Unidad Popular”; la creazione di organismi di doppio potere nel quadro di un governo che rappresenta i lavoratori è una dimostrazione di “irresponsabilità”: “il doppio potere è sorto in altre circostanze storiche, in opposizione a strutture di potere reazionarie che non avevano una base sociale e un appoggio popolare” (40).
Il “paro de octubre” e la sua disfatta
Su questo sfondo, il 9 ottobre comincia lo sciopero dei camionisti con lo scopo dichiarato di far cadere Allende. Il loro leader, Leon Villarin, è un dirigente del gruppo fascista Patria y Libertad. La scintilla che provoca l’incendio è il sospetto che il governo voglia realizzare un sistema di trasporti pubblici, che andrebbe ad intaccato il potere di una corporazione di piccoli proprietari particolarmente potente in un paese con la conformazione geografica del Cile. Il blocco armato da parte dei camionisti e dell’estrema destra dell’unica arteria che mette in comunicazione il nord e il sud del paese provoca rapidamente la penuria di molti generi di prima necessità, del combustibile e delle materie prime. Ai camionisti si uniscono in un secondo tempo altri settori piccolo borghesi (tassisti, medici, avvocati, insegnanti, piccoli negozianti, professionisti…) e soprattutto gli imprenditori la cui associazione proclama la serrata. L’offensiva della borghesia è stata ispirata e viene sostenuta generosamente dai dollari della Cia. Ma ottiene anche un “effetto collaterale” imprevisto e indesiderato (per il padronato): spinge i lavoratori a reagire e a prendere nelle proprie mani non solo il futuro del governo bensì anche il proprio. Di fronte al sabotaggio economico della borghesia i lavoratori si assumono l’onere di far ripartire la produzione: occupano e riaprono le fabbriche chiuse, riorganizzano la produzione e i rifornimenti; in piena emergenza costruiscono un’alternativa operaia all’economia dei padroni (41). In questo contesto nascono i coordinamenti industriali in tutto il paese. I cordones indu-striales diventano la specifica forma cilena dei soviet e rappresentano il punto più alto di organizzazione rivoluzionaria della classe operaia, lo strumento di una svolta potenzialmente decisiva nello sviluppo della crisi rivoluzionaria e del suo sbocco. Non esplicano soltanto compiti pratici di coordinamento degli sforzi economici fra le diverse fabbriche e i diversi settori. Sono in nuce gli strumenti di un contropotere che non solo può opporsi all’autorità padronale sui posti di lavoro o nella produzione, ma costituisce anche la base embrionale di una nuova organizzazione del potere politico, fondata sull’azione diretta delle masse, cioè l’embrione di un dualismo di poteri che è il segno distintivo di una crisi rivoluzionaria matura. I cordones sono inoltre uno strumento del fronte unico perché nei cordones si realizza l’unità della classe nelle sue diverse articolazioni, in quanto essi integrano tutti i lavoratori al di là della loro appartenenza di partito o alla posizione rispetto al governo. Potenzialità analoghe si sviluppano anche nei quartieri e sul territorio. Per contrastare l’interruzione dei rifornimenti, la chiusura dei negozi, l’accaparramento, l’aumento dei prezzi e il mercato nero, si diffondono le juntas de abastecimientos y precios (Jap, comitati di approvvigionamento e dei prezzi) e i comandos comunales (direzioni comunali) che coordinano a livello municipale questi interventi e garantiscono la continuità dei servizi pubblici. Pur se promossi dal governo e sotto il suo controllo, questi organismi diventano canali di una mobilitazione che presto va oltre i meri compiti di coordinamento e di amministrazione economica; passano alla controffensiva requisendo i camion, riaprendo i supermercati chiusi, sgomberando manu militari le strade occupate, ecc.; dall’esigenza di fronteggiare le bande fasciste nascono anche le prime esperienze di autodifesa. In breve, nelle strade e nelle città si assiste al dispiegarsi di una guerra civile strisciante che però non ha, dal lato delle masse, un coordinamento e una direzione coscienti. Infatti, invece di appoggiarsi sull’autorganizzazione delle masse e di mettersi alla loro testa, il governo attiva le risposte istituzionali e proclama la legge marziale, conferendo nelle zone più calde i pieni poteri all’Esercito, che ovviamente li impiega piuttosto per reprimere le iniziative delle masse che per far rispettare la “legalità” al fronte padronale. Dopo 26 lunghissimi giorni, nei quali la classe operaia cilena ha dimostrato di poter prendere in mano il proprio destino e quello del paese, lo sciopero dei padroni può dirsi sconfitto e la classe dominante costretta di nuovo sulla difensiva. Ciononostante, quale prova delle sue buone intenzioni, Allende chiama il 3 novembre i militari a far parte del governo; il generale Prats, capo dell’Esercito, diventa ministro dell’Interno; il generale Bachelet, capo della Forza aerea, si occuperà dei rifornimenti. Più che per spezzare il blocco padronale, la mossa sembra imposta dalla volontà di imporre una tregua al movimento delle masse vittoriose. Luis Corvalan, leader del Partito comunista, saluta l’ingresso dei militari nel governo come un “segno di forza del governo e della democrazia”. Ma il Pentagono, negli stessi giorni, in un rapporto denominato Ottobre in Cile, arriva ad altre conclusioni. Segnala il rischio imminente che il governo sia scavalcato dall’insurrezione popolare e osserva che solo un regime duro potrebbe disarticolare l’organizzazione dei lavoratori (42). In altre parole, il regime “democratico” in Cile ha ormai i giorni contati (43). La radicalizzazione della classe operaia si manifesta anche in un salto nella coscienza politica dei lavoratori che si rivela nelle discussioni sul programma, gli strumenti e le prospettive delle lotte. Si legge nel Pliego del Pueblo (una sorta di manifesto), elaborato e diffuso nell’ambito dei cordones industriales in opposizione al Pliego del Chile diffuso dalla reazione durante lo sciopero dei camionisti: “L’esperienza di queste giornate ha dimostrato che i lavoratori non hanno bisogno dei padroni per far funzionare l’economia. Nei suoi disperati tentativi di paralizzare il paese il padronato ha mostrato soltanto il suo carattere parassitario… La conclusione è chiara: i padroni non servono.” Rispetto all’Unidad Popular: “è necessario… creare un’altra modalità di rapporto con il governo e le sue istituzioni. Nessuno ha il diritto, meno che mai in nostro nome, di agire senza consultarci… Nessun funzionario può dimenticare che la sua prima responsabilità è verso il popolo e che, pertanto, è obbligato a sottostare al suo controllo organizzato”. Sul piano politico si osserva che “non si può risolvere la crisi con concessioni e alleanze con qualche militare di alto grado… Occorre uscire in avanti, appoggiandosi alla forza della classe operaia e delle masse popolari, con un’offensiva permanente come quella delineata nel Pliego del Pueblo.” Gli obiettivi prioritari sono così elencati: “sconfiggere il gabinetto militare e ogni altra concessione”, “no alla restituzione delle imprese statizzate, requisite e occupate durante lo sciopero dei capitalisti e loro incorporazione all’area sociale”, “stabilire definitivamente il controllo operaio in tutte le imprese che restano nell’area privata dove ci siano le condizioni che lo consentono.” Il documento rivendica inoltre la rapida nazionalizzazione senza indennizzo degli investimenti stranieri nel paese, il non pagamento del debito estero e l’abolizione del segreto commerciale e bancario. Chiede ancora di contrastare l’attitudine della borghesia a tagliare gli investimenti imponendo un tetto ai profitti e l’obbligo di reinvestirli. Si avanza poi la richiesta della piena uguaglianza salariale fra uomini e donne sul lavoro e si formulano proposte in favore della liberazione della donna dalla schiavitù dei lavori domestici, come la creazione di asili nido, di mense e lavanderie popolari e lo sviluppo della produzione di elettrodomestici. Infine si chiama a “rafforzare le organizzazioni e i comitati di autodifesa e di vigilanza e a consolidare le Jap” (44).
Lo scontro sul piano Prats-Millas
La divaricazione fra le masse e le direzioni si accentua. Per convincere i lavoratori e lasciare le imprese occupate, il governo non esita a far intervenire i Carabineros e a far arrestare i lavoratori. Nel gennaio 1973 il ministro dell’economia Orlando Millas rende noto un piano che prevede la restituzione ai padroni di un centinaio di imprese già sotto il controllo dello Stato o occupate dai lavoratori e la riduzione a 122 delle aziende dell’area sociale, suscitando immediatamente la risposta dei lavoratori con in testa i cordones industriales di Cerrillos-Maipú e di Vicuña-Mackenna. Si svolgono manifestazioni e si erigono barricate. Il 30 gennaio 1973, marciando su Santiago, i lavoratori cantano per la prima volta: “trabajadores al poder” (45). Il 5 febbraio, nel corso di una manifestazione allo Stadio nazionale di Santiago contro il piano Prats-Millas, compare per la prima volta su uno striscione lo slogan “un pueblo desarmado es un pueblo conquistado” (un popolo disarmato è un popolo vinto). In poco più di un anno la coscienza dei lavoratori, certo “provocata” dalle iniziative della destra e dall’esperienza concreta, ha fatto un enorme balzo in avanti. Si pone ora l’esigenza di coordinare a livello nazionale i cordones per costruire un’alternativa di potere (46), ma la “spontaneità” delle masse, da sola, non può assolvere questo compito. Il governo stesso, infatti, si pone il compito di controllare e sviare questa dinamica che rischia di scavalcarlo e di travolgere la ricerca del dialogo con la borghesia. In un discorso del maggio 1973 Allende osserva: “L’ordine borghese ha perso valore tra i lavoratori, che si sforzano di creare dentro il regime istituzionale dello Stato e la sua normativa legale, un ordine e una disciplina… manifestando la tendenza all’esercizio della democrazia diretta… Si deve creare, insieme con le istituzioni comunitarie e sociali attualmente esistenti, un nuovo centro organizzatore, i comandos comunales, formati da rappresentanti eletti dalle organizzazioni comunitarie e dei lavoratori… e capaci di rendere possibile il controllo popolare sulle istituzioni amministrative contribuendo a combattere lo spirito burocratico… e creare il poder popular, ma non antagonista o indipendente dal governo, che è la forza fondamentale e il capitale su cui possono contare i lavoratori per avanzare nel processo rivoluzionario.” E’ palese l’intento di stravolgere il ruolo dei nuovi organismi indipendenti creati dai lavoratori e di integrarli nell’apparato dello Stato borghese, come sua articolazione subordinata e sottoposta all’autorità del governo (47). Mentre Allende e il governo lanciano la parola d’ordine “No alla guerra civile”, i partiti borghesi, il padronato e l’imperialismo si preparano al golpe, i cordones colgono la situazione: “Noi lavoratori sappiamo che si avvicina l’insurrezione finale dei padroni e ci prepariamo per stroncarla come abbiamo fatto con la serrata di ottobre, poiché pensiamo che non ci può essere pace sociale fra sfruttati e sfruttatori.” (da una dichiarazione del cordon Cerrillos-Maipú). Il 10 aprile nella poblacion di Costitucion si costituisce un’asamblea del pueblo nella quale 25 mila pobladores votano di assumere il controllo del Municipio e di farsi carico di tutti i compiti statali come la sanità, l’istruzione, i trasporti e la distribuzione dei beni essenziali. Il 19 aprile comincia lo sciopero per ragioni salariali dei 13 mila minatori di El Teniente, un impianto di estrazione del rame nazionalizzato da Allende. E’ un episodio che dà una dimensione dirompente alle contraddizioni emergenti fra il governo di Unidad Popular e la sua base sociale, contraddizioni su cui si inserisce la destra che ormai è disposta a giocare ogni carta pur di rovesciare Allende. Lo sciopero, sconfessato da tutti i settori della sinistra (compreso il Mir), va avanti per oltre due mesi perché il governo, per il timore degli effetti destabilizzanti di una possibile rincorsa salariale, si rifiuta di considerare le richieste degli operai. I quali ricevono invece l’appoggio strumentale della DC e di Patria y Libertad che riescono a trasformare un conflitto sindacale in uno scontro politico fra operai e Unidad Popular.
Verso il golpe disarmando… i lavoratori
Tra la primavera e l’estate del 1973 la crisi cilena evolve rapidamente verso l’epilogo. Per valutare correttamente questo esito è importante tener fermo che il conflitto che oppone la borghesia cilena all’Unidad Popular è subordinato in ultima analisi all’evoluzione dello scontro principale, che resta quello fra la borghesia e il proletariato. In breve, è il fallimento dell’Unidad Popular nel compito di controllare le masse, e non il suo “estremismo”, che fa decidere la borghesia per la “sovversione” e il rovesciamento violento del governo Allende. Questa decisione matura fra la fine dello sciopero dei camionisti (ottobre 1972) e lo scacco del fronte borghese nelle elezioni (marzo 1973). E’ proprio in seguito al fallito paro di ottobre, infatti, che si delinea la combinazione di fattori che porta al golpe. Sul versante dell’Unidad Popular, falliscono sia l’estremo tentativo di “placare” la DC e la borghesia contrattando i “limiti” delle riforme e fornendo ogni sorta di “garanzie” sul terreno istituzionale, sia lo sforzo di bloccare la radicalizzazione delle masse e la tendenza alla loro autorganizzazione indipendente. Sul versante della borghesia, l’esaurimento degli ultimi mezzi “ordinari” per ristabilire la situazione porta alla definitiva unificazione del blocco dominante e al superamento delle residue remore circa la “soluzione finale” da affidare ai militari. In mezzo, si collocano i tentativi dei lavoratori di contrastare le tendenze del “proprio” governo e dei “propri” partiti al ripiegamento e alla resa, di allargare e unificare la rete della propria autorganizzazione, di prepararsi in vista di uno scontro che si annuncia sempre più chiaramente come imminente e decisivo. Ma mentre la controrivoluzione riesce a darsi una strategia, un’organizzazione e una direzione centralizzate, sono proprio questi fattori essenziali che fanno difetto al proletariato cileno nel momento decisivo. Nel maggio del 1973 anche nella DC prevale l’opzione pro-golpista con l’elezione a segretario di Patricio Aylwin, esponente della destra intransigente, e l’approvazione di un documento che impegna il partito a fare ogni sforzo per impedire che il Cile “diventi una dittatura marxista”. Da questo momento la DC assume un ruolo centrale nella preparazione politica del golpe, il cui scopo è delegittimare il presidente Allende e creare il pretesto che giustifichi l’intervento delle forze armate. Fra i militari le posizioni dei “lealisti” sono sempre più precarie (48) e la macchina del golpe è avviata. Agli inizi di giugno un gruppo di sottufficiali e di marinai incontrano i senatori Altamirano, socialista, e Garreton, del Mapu, e Miguel Enriquez, segretario del Mir, a cui forniscono informazioni dettagliate sui cospiratori e i loro piani. Ma l’incontro viene spiato e nelle settimane successive sono incarcerati segretamente per iniziativa della Marina 400 sottufficiali con l’accusa di “cospirazione contro le forze armate”. Benché Allende e il governo siano informati della cosa, nessuno interviene.
Il “Tancazo”
Il 29 giugno si verifica un primo tentativo di sollevazione militare, il “tancazo”. Un reparto di blindati del II reggimento di Santiago penetra nel ministero della difesa e intima la resa alla guardia del palazzo della Moneda. Il tentativo fallisce per il rapido intervento di forze “leali” al governo al comando del generale Prats in persona. La situazione sembra di nuovo sotto controllo del governo. In realtà, come scriverà il generale Pinochet nelle sue memorie, il tentativo fallito è servito come prova generale che ha consentito ai futuri golpisti di verificare l’allineamento delle forze all’interno delle forze armate, di saggiare le capacità difensive del governo e il suo sostegno popolare, di individuare le forze dei cordones industriales e della sinistra pronte a reagire.La reazione popolare è imponente ma le direzioni maggioritarie operano per ricondurla nel quadro della “legalità”, spargendo a piene mani illusioni sulla “lealtà democratica” delle forze armate. Eppure un numero crescente di lavoratori, attraverso i cordones industriales, si pone il problema della costituzione di una milizia operaia e della preparazione della resistenza armata al golpe. Ma i cordones non avranno il modo e il tempo di risolverlo. Per farlo, dovrebbero andare oltre e contro il “loro” governo, pur continuando a difenderlo contro la destra; dovrebbero prepararsi a sostituire le direzioni ufficiali, pur agendo con il massimo di unità d’azione con le masse che ancora ad esse si affidano. Ma affinché i cordones possano svolgere questo ruolo, sarebbe indispensabile la presenza e la battaglia egemonica di un partito come quello di Lenin nel 1917 in Russia. Ma questo partito in Cile non c’è e la strada verso l’ottobre rosso sarà troncata da un settembre nero.
La “Ley de control de armas”
Il governo e l’Unidad Popular, invece, sperano di scongiurare reazioni estreme della classe dominante facendosi carico direttamente delle sue esigenze, anche repressive. Paradigmatica la storia della Ley de control de armas (legge sul controllo delle armi), che sospende l’inviolabilità del domicilio e consente all’esercito perquisizioni senza mandato alla ricerca di armi. Il progetto di legge, presentato dal democristiano Carmona nell’ottobre 1972, non avendo ricevuto il veto del presidente che avrebbe potuto bloccarlo, viene approvato dal parlamento e diventa esecutivo. Il giornale del Partito socialista attribuisce il fatto all’“imperdonabile omissione di qualche funzionario”, ma il funzionario, rintracciato, si difende spiegando che “tanto il presidente Allende che la maggioranza dei parlamentari dell’Unidad Popular consideravano positivo il progetto di legge” (49). Di fatto l’esercito utilizzerà questa legge per scatenare una campagna generalizzata di perquisizioni ed arresti volta a prevenire e a disorganizzare una possibile resistenza operaia (50). Solo pochi giorni prima del golpe, il 7 settembre, durante un’ondata di perquisizioni ai bastioni operai delle fabbriche dell’Area social, fra cui le fabbriche tessili Sumar e Lanera Austral, l’esercito procede alla fucilazione di un operaio. Allende non trova di meglio che convocare i generali per chiedere loro di ordinare ai subalterni di “moderare il proprio impeto” nel corso delle perquisizioni…
L’ultima prova di forza
Il 27 luglio comincia un nuovo sciopero dei trasporti che paralizza il paese. Questa volta, dichiara il capo dei camionisti Leon Villarin, “lo sciopero avrà termine solo dopo la caduta del governo Allende”. Ai primi di agosto, un’assemblea degli ufficiali della guarnigione di Santiago chiede al generale Prats, ministro della difesa, queste misure immediate: un accordo fra il governo e la DC, l’assegnazione delle imprese dell’Area social alle forze armate, la messa fuori legge dei cordones industriales… E’ l’enunciazione del programma dei golpisti nella forma di una sorta di ultimatum al governo. Avrà come risposta, il 23 agosto, le dimissioni del generale Prats dai suoi incarichi di ministro della difesa e di comandante il capo dell’esercito. Sarà sostituito ai vertici delle forze armate dal generale Augusto Pinochet. E’ palese il significato di questo cambio: il prevalere ai vertici delle forze armate dei settori golpisti. Con tutto ciò, Allende e il governo continuano a illudersi e a rassicurare il paese sulla “lealtà democratica delle forze armate cilene”. Ai primi di settembre si uniscono allo sciopero dei camionisti altri settori dei ceti medi: medici, farmacisti, avvocati, commercianti all’ingrosso e dettaglianti. La stampa borghese è scatenata e “El Mercurio” arriva a chiedere al presidente di togliersi di mezzo suicidandosi… Il 4 settembre, terzo anniversario della vittoria elettorale di Allende, si svolgono in tutto il paese enormi manifestazioni di massa. Solo a Santiago scende in strada un milione di lavoratori. E’ una grande prova di forza, ma questa forza non sarà utilizzata e non troverà una direzione alternativa che la orienti all’azione. Ancora oggi fa impressione vedere le fotografie di queste fitte schiere di lavoratori che sfilano armati di… bastoni, perché il governo si rifiuta di consegnare loro le armi che pure essi chiedono con crescente insistenza e consapevolezza di ciò che sta maturando. Il 10 settembre, poche ore prima che il golpe cominci a Valparaiso, il ministro della difesa di UP, Orlando Letelier, convoca una conferenza stampa per annunciare che il presidente ha intenzione di annunciare una “soluzione politica alla crisi” del paese. Si riferisce alla decisione di Allende di chiedere all’elettorato con un referendum se il governo può proseguire o deve dimettersi. Allende in verità pensa di non poter vincere il referendum, la cui convocazione è dunque un modo per uscire di scena in modo “indolore”, preservando una parvenza di “legalità” ed evitando (così valuta Allende) la tragedia del colpo di Stato (51). Si tratta, in buona sostanza, di una dichiarazione di resa di fronte al golpe annunciato. Ma neppure quest’estrema rinuncia sarà sufficiente a fermare i militari; otterrà solo il risultato di far anticipare di qualche giorno la data del colpo di Stato (52).
L’11 settembre 1973
Arriva dunque annunciato, la mattina dell’11 settembre, l’ultimo atto dell’insurrezione militare in atto da tempo. La Junta militar, formata dai capi delle diverse forze armate e dei Carabineros e guidata da Augusto Pinochet, proclama lo stato d’assedio (sarà revocato solo l’11 marzo 1978), chiude il parlamento e proibisce ogni attività politica. Assume tutti i poteri concentrando nelle proprie mani il potere esecutivo, legislativo e costituzionale. Soprattutto si dedicherà per alcuni anni a dare la caccia agli oppositori e ai “comunisti” (53). Si tratta in verità di una “guerra” unilaterale contro la sinistra e il movimento operaio e popolare, un esempio di quel tipo di intervento che la Dottrina della sicurezza nazionale degli Stati Uniti avrebbe successivamente definito, con riferimento specifico ai conflitti in Salvador e Nicaragua negli anni ottanta, “guerra a bassa intensità”. La dittatura militare durerà fino alla fine degli anni ottanta e cercherà non solo di sradicare il movimento operaio ma anche di cambiare in profondità il paese. Riuscendoci. Al punto che a trent’anni di distanza l’eredità del golpe e della dittatura pesa ancora sulla vita politica e sul clima sociale del Cile. Forse il primo segno di rottura in questa interminabile continuità è stato lo sciopero generale che si è svolto lo scorso 13 agosto, il primo dopo la caduta della dittatura (1990). Ma è a suo modo significativo della sconfitta storica subita dal movimento operaio che esso si sia svolto contro un presidente della repubblica, Lagos, che si pretende “socialista”, governa in coalizione con la DC e attua una politica liberista…
La resistenza e la repressione
Purtroppo i dirigenti di UP, prigionieri di una strategia illusoria, non vogliono vedere la minaccia che sta prendendo forma e finiscono per consegnare disarmato il movimento operaio cileno ai suoi carnefici. L’11 settembre trova i militanti di Unidad Popular impreparati ad affrontare il golpe e senza una strategia di riserva. Dispongono, soprattutto la sinistra socialista, di poche armi leggere, quelle utilizzate per la sicurezza dei dirigenti e delle sedi, nulla di fronte ai mezzi dispiegati dalle forze armate. Gli operai di alcune fabbriche e dei cordones industriales della cintura di Santiago resistono con armi leggere e qualche mitragliatrice per alcuni giorni, poi sono sopraffatti. Contribuisce alla sconfitta la decisione della Cut di proclamare lo sciopero generale con occupazione delle fabbriche. Rinchiusi e isolati i lavoratori nei posti di lavoro, i militari non trovano subito una adeguata risposta nelle strade e possono successivamente procedere più facilmente a colpire e a smantellare fabbrica per fabbrica la resistenza di una classe operaia demoralizzata dalla decapitazione della propria direzione e dalla mancanza di ogni informazione. Il Mir dispone di armi leggere e di qualche mitragliatrice, di un minimo di preparazione e di un embrione di struttura militare clandestina. Ma la resistenza a un colpo di Stato non si può improvvisare. Così, dopo un incontro con i dirigenti della sinistra socialista, i suoi dirigenti decidono di riservare le armi per occasioni migliori e danno l’ordine di seppellirle. Nei giorni successivi militanti del Mir tentano alcuni assalti a caserme e a commissariati per recuperare altre armi, ma senza successo. Il Mir è anche l’unica forza che ha cercato in precedenza di fare un lavoro di penetrazione nelle forze armate per conquistare elementi di base e provocarne la disgregazione dall’interno, anche se con risultati ancora limitati; si ha comunque notizia di tentativi di opposizione interna, in particolare nella Marina, stroncati dai comandi con decine di fucilazioni. Ma in sede di bilancio bisogna ammettere che gli episodi di resistenza armata a Santiago e altrove sono stati episodi isolati e destinati alla sconfitta. Non si assiste in Cile a nessuna “guerra civile” – come pretenderà la giunta militare per giustificare la repressione prolungata – ma solo a una guerra unilaterale delle forze armate, sostenute dalla borghesia e dall’imperialismo, contro il movimento operaio e la sinistra.
In effetti, la repressione è stata pianificata con cura. La reazione ha fatto la radiografia delle forze motrici della rivoluzione cilena distinguendo tre gruppi da colpire: 1) “i motori del marxismo”, ossia gli attivisti locali, dei cordones industriales, ecc. iscritti o meno ai partiti, ossia coloro che realmente “muovono il popolo”; 2) “i dirigenti del marxismo”, ossia i quadri politici dell’UP, intellettuali e dirigenti studenteschi; 3) “i dirigenti e i funzionari del governo e i gerarchi dell’UP”. I primi devono essere arrestati e fucilati immediatamente; quelli del secondo gruppo devono essere “arrestati, torturati e condannati a pene di lunga durata”; quelli del terzo gruppo devono essere “detenuti per un certo tempo e poi espulsi dal paese” (54). Si tratta in buona sostanza di un programma di decapitazione della classe operaia, una sorta di “genocidio di classe” volto a distruggere la forza organizzata e la coscienza militante dei lavoratori cileni per decenni. Bisogna purtroppo aggiungere che la dittatura ha sostanzialmente portato a termine questo “sporco lavoro” per conto della borghesia cilena e dell’imperialismo.
Il prezzo della “via pacifica al socialismo”
Difficile dare cifre precise della repressione. Amnesty International calcolava alla fine del 1974 una cifra di 15 mila uccisi, coincidente con quella stimata dai rinchiusi nei campi di concentramento confrontando le informazioni fornite dai prigionieri provenienti da tutto il paese. La Commissione cilena per i diritti umani ha fornito in seguito questi dati: almeno 15 mila assassinati, oltre 2.200 detenuti scomparsi, 155 mila detenuti in oltre 160 campi di concentramento e 164 mila esiliati. Ecco, in cifre, il prezzo della “via pacifica” al socialismo. Una via che invece che al socialismo ha condotto alla facile vittoria di una delle più feroci controrivoluzioni della storia e a un prezzo di sangue senza precedenti per l’avanguardia di uno dei movimenti operai più forti fino ad allora in America latina. Il realtà, le reboanti promesse sul “poder popular” e sulla “partecipazione dei lavoratori al potere dello Stato” hanno nascosto il fatto fondamentale: anche per Allende e l’Unidad Popular, il popolo e i lavoratori non avevano il diritto di armarsi, un privilegio che la costituzione vigente dello Stato (borghese), a cui Allende e l’Unidad Popular si sono sempre attenuti, riservava alla casta militare.
Il “neoliberismo militare”
I teorici liberali, che hanno celebrato trionfi planetari dopo il crollo dello stalinismo, pretendono che esista una stretta associazione fra liberismo economico e democrazia politica, soprattutto che il primo sia una sorta di “base strutturale” e di “garanzia” della seconda, la quale sarebbe in pericolo ogni volta che lo Stato si intromette nel “libero” mercato. L’esempio cileno è la smentita fattuale più clamorosa di queste pretese. Esso mette in luce proprio la relazione opposta: il liberismo economico, per potersi imporre in un paese con un forte movimento operaio, richiede di sopprimere la democrazia politica e di instaurare uno Stato forte, meglio ancora una spietata dittatura militare, allo scopo di controllare o annullare la reazione delle masse sfruttate (55). Così come hanno fatto i militari al potere in Cile dal 1973 al 1990 che, come è noto, hanno adottato alcuni economisti della scuola liberista di Milton Friedman come propri consiglieri economici (i “Chicago boys”). In verità, non sono le idee astratte ma i concreti rapporti di classe instaurati dalla dittatura che spiegano i “successi” economici (molto relativi in verità) del neoliberismo in Cile. Sulla base dell’annichilimento delle organizzazioni dei lavoratori e della confisca di ogni diritto democratico delle masse, il capitalismo cileno ha avuto modo di rilanciare il saggio di sfruttamento della forza lavoro, e dunque dei profitti, a livelli senza precedenti. Lo smantellamento di molte riforme economiche dei governi precedenti (ma non di tutte: la dittatura ha conservato la nazionalizzazione del rame; così, per un paradosso della storia, il rame nazionalizzato dal “comunista” Allende è diventato uno dei pilastri economici della dittatura… (56)), i ponti d’oro al capitale straniero, le privatizzazioni in tutti i settori dell’economia, dalla produzione ai servizi alle assicurazioni sociali, lo smantellamento delle protezioni sociali e delle organizzazioni sindacali e l’ultraflessibilità del mercato del lavoro, hanno consentito una radicale ristrutturazione del “modello” economico cileno (diventato nei decenni successivi un paradigma planetario) e un rilancio per qualche anno dell’accumulazione del capitale a tassi di crescita “asiatici” (57). Senza con ciò sopprimere, anzi accentuando notevolmente, la natura dipendente dell’economia cilena, che ha conosciuto una vera e propria esplosione dell’indebitamento estero (58) e una accresciuta dipendenza dagli alti e bassi dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale e dal sistema monetario e finanziario internazionale.
Un bilancio storico e politico ineludibile
In sede di bilancio storico e politico dell’esperienza di Allende e dell’Unidad Popular, è necessario andare oltre le parole della propaganda di una parte e dell’altra e attenersi ai fatti storici e al concreto agire politico dei soggetti coinvolti. E questi dicono che il governo Allende, fin dalle sue premesse, non si pose sul terreno della transizione al socialismo, fosse pure graduale e pacifica. Il suo orizzonte fu dichiaratamente la modernizzazione delle strutture economico-sociali e la democratizzazione delle strutture politiche del paese entro il quadro borghese.
Una politica di “fronte popolare”
Questo passaggio venne presentato a volte come la precondizione per avviare, in un secondo momento e nel quadro della legalità vigente, una transizione “pacifica, democratica e pluralista” (Allende) al socialismo. Ma anche se questo fosse stato il sincero convincimento di Allende e di una parte dei gruppi dirigenti dell’Unidad Popular, ciò non contraddice e non contrasta con la qualificazione dell’Unidad Popular come una variante delle politiche di “fronte popolare”, una formula politica che il movimento operaio internazionale, egemonizzato dallo stalinismo e dalla socialdemocrazia, aveva già sperimentato più volte, e sempre con esiti negativi, se non catastrofici, dalla metà degli anni trenta in poi (59). Senza dubbio l’azione riformista del governo Allende fu senz’altro ampia e per certi aspetti radicale quanto quella di nessun altro governo nel quadro del sistema. Ma questo impegno riformatore si fermò davanti alla sacralità dello Stato borghese, della sua legalità e delle sue istituzioni. Allende non mise mai in discussione l’assoluta preminenza delle istituzioni statali borghesi e arrivò a fare concessioni su concessioni alla borghesia e ai militari su questo terreno, mentre cercò di frenare l’iniziativa dei lavoratori che autonomamente cercavano di costruire organismi di tipo nuovo che potevano rappresentare un “pericoloso” dualismo di poteri.
Le ragioni del golpe
Tuttavia, né le rassicurazioni verbali, né le garanzie politiche offerte da Allende furono abbastanza per la borghesia cilena (e per l’imperialismo nordamericano). La vera colpa di Allende e del governo di Unidad Popular fu quella di aver provocato in Cile una crisi rivoluzionaria che rischiava di sfuggire al loro controllo e di aprire le porte a una vera rivoluzione sociale. E qui sta il punto: l’11 settembre 1973 i carri armati di Pinochet non si mossero solo per rimuovere il presidente socialista ma soprattutto per schiacciare una classe operaia che aveva alzato troppo la testa, che aveva umiliato la borghesia durante il paro dell’ottobre 1972, che dimostrava di voler andare oltre i limiti fissati dal governo e di essere in grado di realizzare trasformazioni politiche e sociali rivoluzionarie. Questo era intollerabile per la borghesia cilena e per l’imperialismo nordamericano. La moderazione e la volontà di collaborazione di classe non bastarono ad Allende per salvare le riforme e la democrazia. Al contrario, quella politica e la fiducia nella “lealtà democratica” delle forze armate, contribuirono al disastro: consentirono ai militari e all’imperialismo di preparare indisturbati la controrivoluzione, consegnarono disarmati – in senso metaforico e in senso letterale – i lavoratori e il popolo cileno ai propri massacratori. Prepararono insomma la strada a una delle più grandi tragedie del movimento operaio in America latina e nel mondo.
Il fallimento della “via pacifica”
Alla luce di tutto questo, la valutazione da dare dell’esperienza di Allende e dell’Unidad Popular è chiara: si è trattato non tanto e non solo di una drammatica sconfitta, quanto e soprattutto del tragico fallimento di una strategia politica. Allende e l’Unidad Popular avevano promesso di trasformare il paese attraverso una via pacifica e democratica, anche se più lunga e graduale. In questo senso l’Unidad Popular cilena fu effettivamente la prova del nove del riformismo. Questa prova è fallita. Eppure le masse cilene avevano dimostrato di avere le forze, la volontà e la determinazione per un altro sbocco. Stavano cercando, confusamente, di costruire un altro potere, erano pronte a molti sacrifici per difendere i cambiamenti che il governo aveva varato e per altri ancora più radicali. Solo pochi giorni prima del golpe un milione di lavoratori era sceso in piazza a Santiago e altre centinaia di migliaia in tutto il paese, e molti chiedevano al “proprio” governo le armi per difendersi. Ma non furono ascoltati. Una rivoluzione che si ferma a metà strada si scava la fossa con le proprie mani. Questo è l’insegnamento della tragedia cilena. Ma per condurre una rivoluzione fino in fondo non basta l’azione spontanea delle masse. Occorre che essa sia coordinata, unificata, resa consapevole ed efficace da una strategia e dunque da una direzione politica che non la voglia frenare o deviare ma guidare, stimolare, portare a compimento. In altre parole, non ci può essere una rivoluzione vittoriosa senza un partito rivoluzionario radicato nelle masse, sperimentato, capace di conquistare la maggioranza dei lavoratori alla prospettiva della conquista del potere. Questo è mancato in Cile trent’anni fa. Ma questa non è una lezione che riguarda solo il Cile. E’ un insegnamento di cui occorre facciano tesoro tutti coloro che si propongono di cambiare il mondo. Perché un mondo diverso sia davvero possibile.
Note
(1) Su questo aspetto si veda l’articolo di Marco Ferrando “Il compromesso storico nella storia del PCI, il mito e la realtà”, in Marxismo Rivoluzionario n.2 ottobre-dicembre 2003
(2) “Alleanza per il progresso” si autodenominò la politica riformista promossa da Kennedy in America latina, con cui gli Usa cercarono di neutralizzare l’influsso della rivoluzione cubana sulle masse popolari del continente modernizzando gli assetti sociali e allargando le basi sociali del potere.
(3) Prima di sostenere Allende, il PC aveva proposto alla DC di sostenere un comune candidato indipendente e vi aveva rinunciato solo dopo il rifiuto di quest’ultima (Luis Vitale, Interpretacion marxista de la Historia de Chile, vedi bibliositografia).
(4) Nelle sue Memorie Kissinger ricorda che a Frei furono concessi 40 milioni di dollari nel 1969 e 70 milioni nel 1970.
(5) Le condizioni d’acquisto delle azioni dell’Anaconda sono più che favorevoli per la multinazionale. Esse prevedono che il prezzo del 51% delle azioni sia calcolato comprendendo il valore dei giacimenti (cioè del sottosuolo cileno) e un rendimento particolarmente elevato; che l’indennizzo sia versato in 12 anni; che per il restante 49% delle azioni, da acquisire a partire dal 31 dicembre 1973, sia pagato un prezzo tre volte superiore a quello del 51% iniziale. A queste condizioni le compagnie americane avrebbero ottenuti in pochi anni 4.500 milioni di dollari di utili, ossia 1.000 milioni di dollari in più di quelli che avevano ricavato nel precedente mezzo secolo di sfruttamento! (Luis Vitale, op. cit.).
(6) “In sintesi, questa riforma agraria, sostenuta dall’Alleanza per il progresso, fu importante per il processo sociale che aprì nelle campagne, ma limitata circa le trasformazioni radicali della struttura agraria. In ultima analisi la distribuzione delle terre incolte aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo del capitalismo agrario e di accrescere la produzione agropastorale, nel tentativo di ampliare il mercato interno per l’industria dei beni di consumo, nonché di canalizzare l’ascesa del movimento contadino creando una sorta di ammortizzatore sociale mediante i piccoli proprietari beneficiati dalla distribuzione delle terre.” (Luis Vitale, op. cit.).
(7) Mentre il 50% dei proprietari possiede meno di 5 ettari pro capite e complessivamente meno dell’1% delle terre, meno del 2% dei proprietari, possiede fondi superiori ai 1.000 ettari e detiene complessivamente il 72% dei terreni coltivabili (Luis Vitale, op. cit.).
(8) Alla fine del 1969 hanno avuto la terra solo 17.400 famiglie, su un totale di circa 100.000 che il governo si è ripromesso di soddisfare; sono state espropriate poco più del 10% delle superfici e il latifondo resta largamente dominante (Luis Vitale, op. cit.).
(9) Da 24 sindacati con 1658 affiliati nel 1964 a 394 sindacati con 103.644 associati nel 1969.
(10) Si passa da 723 scioperi nel 1965 a 1.142 nel 1967 a 1.939 nel 1969 (con 230.725 lavorati coinvolti) a 5.295 nel 1970 (con 316.280 lavoratori partecipanti).
(11) Non mancarono gli episodi sanguinosi, come gli 8 morti della repressione dei minatori di El Salvador del marzo 1966, o gli 11 uccisi fra i pobladores di Puerto Montt nel 1969, o l’utilizzo su larga scala dell’esercito contro scioperi o proteste contadine, come nel novembre del 1967.
(12) Nel giugno 1967 gli studenti occupano a Valparaiso l’Università cattolica; il movimento si estende a Concepcion e a Santiago, dove nell’agosto del 1968 studenti del Movimiento Iglesia Joven occupano la cattedrale chiedendo una maggiore attenzione da parte della chiesa per i poveri e gli oppressi.
(13) Un opuscolo della destra descrive Frei come “il Kerensky cileno” (Luis Vitale, op. cit.).
(14) “Non vedo perché dobbiamo starcene qui a vedere come un paese diventa comunista per colpa dell’irresponsabilità del suo popolo”, dichiara il 27 giugno ‘70 il segretario di Stato Henry Kissinger a una commissione speciale del Consiglio nazionale per la sicurezza degli Stati Uniti.
(15) Sul Mir si veda l’articolo dedicato ad esso in questo stesso numero di “Mr”.
(16) Sulla storia e la politica del PC cileno si può vedere Nicolás Miranda, Historia marxista del Partido Comunista de Chile (1922-1973), al sito www.clasecontraclase.cl.
(17) Quest’ultimo diventerà ministro della giustizia nel governo Allende, salvo passare dalla parte della controrivoluzione progolpista nell’ottobre 1972.
(18) Lo si può leggere e scaricare alla pagina: http://www.salvador-allende.cl/Textos/Documentos/programa.htm.
(19) Il programma dell’UP prevedeva la nazionalizzazione (con indennizzo) delle risorse minerarie in mani straniere e dei settori strategici per lo sviluppo del paese: le miniere di rame, salnitro, ferro e carbone; le banche e le assicurazioni; il commercio estero; le grandi imprese e i monopoli della distribuzione; i monopoli industriali in settori come la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica; i trasporti ferroviari, aerei e marittimi; le comunicazioni; la produzione e la raffinazione del petrolio e dei suoi derivati; la chimica pesante e la petrolchimica; la siderurgia, le industrie del cemento, della cellulosa e della carta; tutte queste imprese avrebbero dovuto confluire nell’Area de Propietad Social (Aps) che sarebbe diventata il cuore del sistema di pianificazione economica nazionale. Si prevedeva inoltre, accanto all’Aps e al settore privato, la creazione di un terzo settore denominato Area mixta, costituito da imprese con capitali privati e pubblici.
(20) La formula “Stato popolare”, che allude a istituzioni neutrali al di sopra delle classi, è di per sé una negazione del marxismo, come sa chiunque abbia letto gli scritti di Marx e di Engels, in particolare le “critiche” ai programmi socialdemocratici di Gotha e di Erfurt, o di Lenin, in particolare Stato e rivoluzione; si tratta in ultima analisi di una formula mistificante e irrealistica, che ipotizza la possibilità di piegare le istituzioni “realmente esistenti”, cioè borghesi, a fini opposti a quelli per cui esse esistono e agiscono (la tutela e la conservazione del dominio della classe dominante); un’ipotesi che proprio la vicenda cilena ha dimostrato tragicamente illusoria.
(21) Tutto il discorso del poder popular, già confuso nelle premesse teoriche e nelle formulazioni, non avrà comunque seguito se non nella propaganda. Sarà accantonato ancor prima dell’insediamento di Allende, durante la trattativa con la DC per l’Estatudo de garancias. I 20 mila comitati di Unidad Popular nati in tutto il paese durante la campagna elettorale vengono sciolti tre settimane dopo le elezioni, come segno di buona volontà, accogliendo una precisa richiesta in tal senso della DC. Quando nell’aprile del 1971 l’Unidad Popular ottiene la maggioranza assoluta nelle elezioni amministrative, i suoi dirigenti si guardano bene dal convocare il referendum che dovrebbe istituzionalizzare il poder popular. Sono queste scelte concrete, più che la carta scritta, a chiarire la vera ispirazione dell’UP: la volontà di preservare il quadro statale esistente come terreno d’intesa con la classe dominante. In questo senso, la strategia dell’Unidad Popular non è che una variante delle politiche di “fronte popolare”. Anche se non tutte le sue componenti concordavano con questa qualificazione, essa era invece pienamente accolta dal PC, che ne era l’ispiratore e che si muoveva dentro agli schemi dello stalinismo; non a caso, il PC aveva cercato e cercherà costantemente di allargare l’accordo alla stessa DC.
(22) Salvador Allende Gossens ha allora 61 anni, proviene da una famiglia alto borghese di Valparaiso di tradizioni progressiste e massoniche, è medico ed è stato nel 1933 tra i fondatori del Partito socialista. Dal 1939 al 1942 è stato ministro della sanità nel governo di fronte popolare del radicale Aguirre Cerda. Nel 1945 è stato eletto senatore. Il profilo politico di Allende è quello di un socialista vecchio stampo che si è sempre battuto per l’unità con il PC. Professa una fede incondizionata nella prospettiva della trasformazione socialista del Cile per via pacifica, gradualista e parlamentare, nel pieno rispetto della legalità costituzionale, e fino all’ultimo si illuderà sull’esistenza di una analoga lealtà nei vertici delle Forze armate cilene.
(23) Vale la pena di ricordare che il PC avrebbe voluto cercare un accordo fra l’UP e la DC su un candidato indipendente. Anni dopo, lo stesso Carlos Altamirano, all’epoca dirigente della sinistra socialista, dichiarerà che la sinistra arebbe dovuto cercare un accordo programmatico con la DC e sostenere Tomic (Luis Vitale, op. cit.).
(24) Salvador Allende ottiene il 36,3% (1.075.616 voti), contro il 35,0% di Alessandri (1.036.000 voti) e il 27,8% di Tomic (824.849 voti). Allende vince nettamente nel voto maschile (in Cile uomini e donne votano separatamente), in quello femminile prevale Alessandri mentre i suffragi per Tomic sono quasi pari a quelli per Allende. Il candidato socialista trionfa nel Nord, a Concepcion, secondo centro industriale del paese, nelle aree a forte concentrazione operaia e di lavoratori delle miniere; Alessandri prevale invece a Santiago e nel Sud rurale; Tomic vince a Valparaiso e ottiene i migliori risultati nelle circoscrizioni a forte presenza contadina ma anche in alcune zone operaie (Luis Vitale, op. cit., e Luis Vitale, Y despes 4, ¿que?).
(25) Il quadro parlamentare condizionerà in seguito l’azione di Allende come presidente. Pur essendo il Cile una repubblica presidenziale e avendo il predecessore di Allende, Eduardo Frei, rafforzato i poteri presidenziali, il parlamento manteneva la facoltà di sconfessare i progetti di legge del governo e di ricusare il capo dello Stato e i suoi ministri; fuori dal controllo del presidente restava anche la Contraleria Generale de la Republica, che aveva la supervisione sugli atti amministrativi dell’esecutivo e della magistratura. Alla luce di questi vincoli politico-istituzionali (e di quelli introdotti successivamente con lo Statuto delle garanzie preteso dalla DC) risulta ancora più utopistica la convinzione di Allende e dell’UP circa la centralità della presidenza della repubblica e delle istituzioni statali come leve di un processo di trasformazione sociale.
(26) Anche Alessandri si esprime in modo analogo fin dal primo momento in cui sono resi noti i risultati elettorali (Luis Vitale, op. cit.).
(27) Sono molto significative le parole usate dal generale Schneider in un vertice delle Forze armate per spiegare perché il Congresso deve ratificare l’elezione di Allende: “Le Forze armate non possono impedire adesso… i cambiamenti. Una parte molto importante dei cileni non è disposta a farsi sottrarre un trionfo elettorale che pensa potrà cambiare la sua vita… Il signor Allende ci ha dato assicurazione che si atterrà alla Costituzione e alle leggi… Il senatore mi ha detto personalmente un’altra cosa su cui sono d’accordo con lui: in questo momento un governo come quello di Allende è l’unico tipo di governo che può impedire che scoppi un’insurrezione popolare violenta… Le Forze armate, che sono la garanzia che questa società continui ad essere occidentale e cristiana, devono aspettare e vedere quello che accadrà. Il futuro ci dirà se dovremo intervenire per rimettere le cose a posto o se il signor Allende manterrà il suo impegno di calmare l’inquietudine popolare e di impedire l’insurrezione dei non possidenti.” (in Luis Vega, La Caída de Allende, citato da M. Novello, art. cit.).
(28) Non così i mandanti… Il diretto coinvolgimento della Cia, in questo e in successive azioni di terrorismo o di provocazione, è stato ormai ampiamente provato, oltre che da diverse inchieste giornalistiche, anche dalla pubblicazione di tutta una serie di atti ufficiali del governo americano desecretati dopo il ‘98. In proposito vedere il sito www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB8/nsaebb8i.htm.
(29) “Il condizionamento a cui si era sottomesso lo schieramento di maggioranza relativa conteneva un punto di estrema gravità per il futuro del paese: il concetto di “autonomia” delle Forze armate, che non si trova nella Costituzione del 1833 né nella Costituzione del 1925 in vigore. Questa esigenza venne così motivata dalle massime autorità della DC: “Ci interessa che le Forze armate e il corpo dei Carabineros continuino ad essere una garanzia della nostra convivenza democratica. Ciò esige che si rispettino le strutture e le gerarchie delle Forze armate e del corpo dei Carabineros, i sistemi di selezione, i requisiti e le norme disciplinari vigenti, che si assicurino ad esse una equipaggiamento adeguato alla loro missione di vegliare sulla sicurezza nazionale, che non si utilizzino i compiti di partecipazione che si esigono da esse per lo sviluppo nazionale per farle deviare dalle loro funzioni specifiche e che non si compromettano i loro bilanci”. Questo punto… fu presentato sotto forma di riforma costituzionale e approvato il 22 ottobre 1970… Questa fu la giustificazione che si utilizzò per effettuare il colpo di Stato militare contro il governo Allende.”
(Luis Vitale, op. cit.).
(30) Il lettore può fare facilmente il confronto con il primo anno della presidenza Lula in Brasile: tale confronto è tutto a favore di Allende. Ciò illustra la differenza abissale che passa fra un governo effettivamente riformatore, quale fu certamente, all’inizio, quello di Allende, e un governo neoliberale, cioè nei fatti controriformatore, quale è quello di Lula.
(31) Durante il periodo dell’Unidad Popular i salari reali aumentarono complessivamente in misura superiore al 50%.
(32) La portata di questo “sconto” è in verità senza proporzione con gli utili effettivamente realizzati dalle multinazionali; solo i profitti esportati dal 1952 al 1970 ammontano a qualcosa come 16 miliardi di dollari, la riduzione degli indennizzi non arriva in tutto al miliardo…
(33) Queste 202 imprese manifatturiere rappresentavano solo il 3% del totale, ma occupavano 116 mila lavoratori, pari al 20% della manodopera industriale.
(34) Si consideri anche che le terre espropriate e distribuite erano in generale quelle meno produttive e mancavano di macchine e infrastrutture; in molti casi, poi, per sfuggire all’esproprio, gli allevatori ricorrevano all’abbattimento delle mandrie o al loro espatrio clandestino in Argentina. Con tutto ciò, in un documento del 1980 della Banca mondiale si dice che la riforma agraria cilena cominciò a dare i suoi frutti dalla stagione 1973-74; lo stesso documento osserva inoltre che, “anche nei momenti più turbolenti, la riforma fu realizzata con una ammirevole assenza di violenza e di distruzioni di beni.” (citato da J. Cademartori, vedi bibliositografia).
(35) Su tutto ciò si veda anche quanto già pubblicato nello speciale Cile su “Progetto comunista” dell’ottobre 2003.
(36) Fra il novembre del 1970 e l’agosto del 1971 il governo Allende pagò per indennizzi 400 milioni di dollari alle banche, 576 milioni alle multinazionali del ferro e del salnitro, 320 milioni ai latifondisti, 600 milioni per le imprese acquisite all’area sociale, e 8.830 milioni alle multinazionali statunitensi Anaconda e Kennecott, già proprietarie delle miniere di rame.
(37) In un anno le riserve valutarie passarono da 343 a 32 milioni di dollari; i crediti esteri passarono da 300 milioni all’anno dell’era Frei a meno di 30; le importazioni di macchinari industriali caddero del 22%, la fuga dei capitali superò gli 87 milioni di dollari…
(38) Il costo della vita aumentò del 78% nel 1972 e del 188% nei primi 9 mesi del 1973. Per un confronto si consideri comunque che la liberalizzazione dei prezzi subito attuata dalla dittatura fece esplodere l’inflazione nel dicembre 1973 al 1100%!
(39) Ciò ha spinto molti a parlare, non del tutto a sproposito, di pericolo del fascismo in Cile, per analogia con quanto è accaduto negli anni venti in Italia e trenta in Germania. Ci si può chiedere se una dinamica di questo tipo sia inevitabile, soprattutto nei suoi sbocchi ultimi: la contrapposizione della piccola borghesia al proletariato fino al punto di sostenere un regime di violenza terroristica antioperaia a tutto vantaggio del grande capitale. La risposta è “no”. Analizzando l’ascesa del fascismo negli anni trenta, Trotsky ha messo in luce come, nel quadro di una crisi rivoluzionaria, i vari settori della piccola borghesia sono molto incerti sulla posizione da assumere e tendono a schierarsi con la parte che dà l’impressione di poter prevalere. Ciò significa che una politica decisa delle forze proletarie ha la possibilità di conquistare a una ipotesi rivoluzionaria anticapitalistica strati decisivi dei settori intermedi della società. Per altro, la stessa vicenda cilena conferma la validità di questa analisi: in un primo tempo ampi settori piccolo borghesi guardarono con simpatia al governo di sinistra, come mostrano gli stessi risultati elettorali; successivamente, una parte di questi (minoritaria, comunque) si passivizzò, o passò con la destra di fronte ai dietrofront e alla paralisi del governo dell’Unidad Popular. Va detto anche che nella situazione cilena molte mobilitazioni della piccola borghesia erano incoraggiate e direttamente organizzate e finanziate dalla borghesia e dall’imperialismo tramite i mass media e i molteplici canali attivati dalla Cia.
(40) Mike Gonzales, Revolutionary Rehearsals, citato da M. Novello, vedere la bibliositografia.
(41) Secondo dati riferiti nel sito internet del Partito comunista cileno (www.pcchile.cl), delle 35 mila fabbriche e officine del paese solo una ventina sono completamente paralizzate; dei 5 mila asentamientos agricoli se ne fermano meno di un centinaio.
(42) In Luis Vega, La caída de Allende; citato in M. Novello, op. cit.].
(43) Ai dirigenti dell’Unidad Popular, euforici per la “vittoria” sullo sciopero dei camionisti, un militare in pensione dà questo avvertimento: “Vi sbagliate, è stato il popolo a vincere, non voi… Ma ci sarà un nuovo sciopero come questo, e non lo vincerà il popolo; prima sarà intimorito e disorganizzato. E quello sciopero sarà l’ultimo…”.
(44) Documento citato da M. Novello, op. cit.).
(45) Michel Silva, Los cordones industriales y el socialismo desde abajo; riferito da Nicolás Miranda, Los cordones industriales, la revolución chilena y el frentepopulismo, in “Estrategia Internacional”, n. 16.
(46) Settori avanzati si stavano incamminando su questa strada. Ecco l’appello lanciato del cordon Cerrillos: “La Direzione del cordon Cerrillos chiama i lavoratori di Santiago a costituire subito un coordinamento organico:
“1) invitiamo tutti i lavoratori a costituire le proprie Direzioni o Coordinamenti industriali di cordones, l’unico modo per la classe operaia per disporre di uno strumento d’azione efficace, capace di mobilitarla e di farle assumere nuovi compiti. Non ci attendiamo una risposta ai nostri problemi dall’attuale direzione della Cut, dal momento che ci ha dimostrato di essere estranea alle reali aspirazioni della classe operaia in questo momento;
“2) invitiamo le direzioni dei cordones industriales di Santiago a costruire al più presto il comando provincial (direzione provinciale) dei cordones industriales;
“3) invitiamo tutti i lavoratori del Paese a costruire i propri comandos provinciales dei lavoratori, per giungere rapidamente a costituire il coordinamento nazionale di questi comandos provinciales.” (Miguel Silvia, Los cordones industriales y el socialismo desde abajo).
(47) Intanto a marzo, nelle elezioni per il rinnovo del Congresso, l’opposizione borghese, che si era presentata unita nella lista Confederacion Democratica e contava di conquistare più dei due terzi dei seggi, cosa che le avrebbe consentito di destituire il presidente per vie legali, incassa un altro scacco: l’Unidad Popular ottiene il 44% dei voti, la più alta percentuale mai riportata dalla sinistra in Cile in un’elezione politica. E’ probabilmente in questo momento che l’imperialismo e la destra cominciano il conto alla rovescia del colpo di Stato militare.
(48) Un episodio sintomatico: il generale Prats viene fischiato nel corso di un incontro con gli ufficiali della regione di Santiago.
(49) In Luis Vega, op cit.; riferito da M. Novello, op. cit.
(50) Nell’agosto del 1977, in occasione del suo primo comitato centrale dopo l’instaurazione della dittatura, il PC cileno si “autocriticò” per la “mancanza di una sicura politica militare” nel corso dell’UP; ma il riferimento non è alla mancanza di una politica per disarticolare dal basso e dall’interno le forze armate della borghesia, ma alla mancanza di un’iniziativa per ingraziarsi i vertici delle stesse…
(51) Questa interpretazione dell’estrema mossa di Allende viene oggi confermata dall’allora segretario del PC cileno Luis Corvalan.
Si veda l’intervista al “Corriere della sera” del 9 settembre 2003.
(52) I primi a essere messi al corrente delle intenzioni di Allende furono gli stessi golpisti, dal momento che il presidente aveva informato Pinochet della sua decisione già il 9 mattina. Questo dettaglio apparentemente di scarsa importanza conferma che l’obiettivo del golpe non era tanto rimuovere Allende quanto stroncare la rivoluzione.
(53) Dieci mesi dopo, ecco cosa dice il ministro degli interni della giunta militare (“El Mercurio” del 16 luglio 1974): “Nel paese esiste un governo militare e una situazione di stato d’assedio e di guerra interna.” (Luis Vitale, cit. op.).
(54) J. Garcés e Saul Landau, Orlando Letelier: Testimonio y Vindicación (citato da M. Novello, op. cit.).
(55) Con riferimento al regime di Pinochet molti hanno utilizzato correntemente la categoria di “fascismo” ma, al di là di molte affinità nei metodi di esercizio della repressione, si tratta di una assimilazione impropria, politicamente fuorviante. In realtà la giunta militare cilena non ha mai cercato di creare un vero e proprio movimento politico o un partito di massa ideologicamente definito attorno a sé. Ha ovviamente ricevuto il sostegno delle forze fasciste cilene, molto attive contro l’UP, ma complessivamente secondarie nel quadro del dominio militare. Soprattutto, è stata spinta a prendere il potere e ha esercitato per alcuni anni una dittatura feroce e totalitaria dalla borghesia cilena e dall’imperialismo nordamericano, non da un movimento di massa reazionario della piccola borghesia. Viceversa, la creazione di un movimento di questo tipo è stata per certi aspetti sollecitata e utilizzata come alibi per giustificare l’assunzione del potere da parte dei militari.
(56) Le entrate statali del rame nazionalizzato ammontarono a 20 miliardi di dollari nel decennio 1974-84!
(57) Il prezzo sociale di questi “successi” è stato ovviamente meno pubblicizzato: in realtà il Cile ha conosciuto inizialmente alcuni anni di iperinflazione e recessione (1974-76), una caduta del 50% dei salari reali e una disoccupazione superiore al 20% della forza lavoro fino alla metà degli anni ottanta; le ricette liberiste hanno inoltre prodotto un gran numero di fallimenti fra i piccoli produttori e i contadini, la formazione di un ampio settore informale e di un esteso esercito di lavoratori precari, soprattutto donne, nelle città e nelle campagne…
(58) Da 4 miliardi di dollari nel ’73 a 15 miliardi di dollari nel ’85.
(59) Allende, in una famosa intervista concessa a Regis Debray nel dicembre del 1970, negava che l’Unidad Popular fosse un fronte popolare, con l’argomento che non subiva l’egemonia di un partito borghese (come l’alleanza degli anni trenta) ma vi dominava l’egemonia dei partiti operai e il suo fine era il socialismo (Regis Debray, La via cilena, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 79-80 e 117-119). Pur negando che l’UP mirasse al socialismo, anche Luis Vitale afferma (nel 1995) che l’Unidad Popular non fu un fronte popolare perché essa era egemonizzata dai partiti di sinistra e il partito radicale vi aveva un ruolo marginale (Luis Vitale, op. cit.). Ma la natura di fronte popolare non dipende dal ruolo che in una coalizione gioca effettivamente un partito o un settore della borghesia ma dal fatto che le direzioni operaie ricerchino con essi un accordo di fatto, limitando al quadro borghese la portata della propria azione. Su questo punto Trotsky ha messo in luce già negli anni trenta che, di fronte all’ascesa delle masse e alla “fuga” della borghesia dal fronte popolare che ne segue, i gruppi dirigenti riformisti sono disposti a cercare un accordo e ad allearsi persino “con l’ombra della borghesia”, ossia con partiti borghesi di secondo piano (tale era il Partito radicale in Cile alla fine degli anni sessanta), pur di non sconfessare una politica che è, per l’essenziale, volta a mantenere entro il quadro dello Stato borghese l’azione del movimento operaio in un contesto di radicalizzazione delle masse. L’egemonia dei partiti di sinistra nel fronte popolare cileno non cambia la sostanza delle cose. D’altro canto, si può immaginare una dimostrazione più chiara e definitiva della natura di fronte popolare del governo di UP della sua ricerca, spasmodica dalla metà del 1972, di un accordo con la DC, o il coinvolgimento nel governo addirittura dei vertici delle forze armate? Chi rappresentavano e per conto di chi agivano i generali e gli ammiragli, se non della classe dominante?